top of page

 

IL MOMENTO PRECISO IN CUI...

Credo che sia iniziato tutto quando la conobbi. Questa mia mania di calcolare gli istanti e le situazioni.

 

-Hai presente quando fai per la prima volta qualcosa..?

 

Mi aveva detto mangiandosi le parole.

 

-Sì, più o meno?

 

-Hai paura eppure vai avanti perché sei curioso, vuoi capire.

 

Lei cercava nella sua borsa qualcosa, che non ho mai capito cosa fosse. Aveva infilato tutta la testa in quella borsa arancione enorme. Aveva tirato fuori delle cose: uno specchio, una penna, il portafoglio, le chiavi di casa. Eppure dal rumore che le sue mani creavano facendo sbattere gli oggetti all’interno, ho sempre sospettato che ancora ci fosse il Mondo lì.

 

Era sbadata, perdeva le cose e poi le ritrovava nei posti più impensabili. Aveva perso un reggiseno una volta. L’avevamo ritrovato nell’ultimo cassetto della verduriera, così tra le cipolle e l’aglio.

 

Lei allora aveva alzato gli occhi al soffitto:

 

-Ma come diavolo c’è finito qui?

 

Non potevi scherzare su questa cosa con lei, non potevi scherzare su tante cose. Lei pretendeva che su certe cose ci fosse un rispetto tale da farle diventare quasi sacre. Farle diventare talmente intime da annullarne il loro essere comiche.

 

 

-Sì, ma non raccontarlo in giro!

 

Questa era la frase che mi diceva più spesso guardandomi dritto negli occhi, dopo che avevamo riso per un po’.

 

Il reggiseno avrebbe puzzato per sempre, ma dalla mia bocca non doveva uscire una sillaba.

 

Quel giorno stava seduta sulla panchina di Piazza Vittorio, l’ultima che c’è prima che la piazza si trasformi in ponte e corra sopra il fiume. Sedeva sulla panchina come un’amazzone e si era gettata dentro la borsa in finta pelle arancione, nella speranza di trovare quella cosa lì.

 

-Vedrai, appena te la faccio vedere mi darai ragione.

 

-Ma io ti credo già!

 

La sua teoria era che vedendo quell’oggetto lì, avrei capito che se fai una cosa per la prima volta non ti ferma nulla, perché la tua curiosità è più grande. Per lei non era coraggioso chi faceva le cose per primo, ma chi le continuava a fare anche dopo. Anche quando sapeva che gli sarebbero costate parecchio, anche quando sapeva che non erano la cosa giusta, anche quando le faceva sapendo che sarebbe finita male oppure semplicemente sarebbe stata davvero dura.

 

Io mi ero fermato solamente per chiederle un accendino e lei mi aveva agganciato col suo discorso sul coraggio. Un accendino che non mi diede mai, che non trovò mai, insieme a quell’altra cosa.

 

Decidemmo quasi subito di vivere in una mansarda proprio lì vicino, dove c’eravamo incontrati. Credevamo nel Destino entrambi, e pensavamo astutamente che un luogo potesse fare la differenza.

 

-Dobbiamo prenderlo in piazza Vittorio!

 

Annuì, non m’importava se non ero d’accordo con lei. M’importava che lei fosse d’accordo con se stessa: era già un traguardo.

 

All’inizio mi era così chiaro il momento in cui avevo capito di amarla che lei se ne preoccupava parecchio. Mi diceva che non era possibile che una persona capisse chiaramente una cosa del genere.

 

-Scusa è come se tu mi dicessi che riesci a sentire l’erba crescere, oppure il rumore di ogni singola goccia che cade durante un temporale. E’ impossibile!

 

Io sorridevo e con aria superiore le rispondevo:

 

-Non sfidarmi, potrei stupirti!

 

Avevamo fatto la spesa quel giorno, avevamo comprato una cartina geografica, di quelle che si usano a scuola. Rappresentava l’intero globo. Decidemmo di segnare tutte le mete raggiunte insieme e di mettere foto, date e post-it che ci rappresentassero.

 

-Una mappa della nostra vita.

 

Mi aveva detto scandendo ogni sillaba, sapeva di mangiarsi le parole. L’avevo guardata mentre la sceglieva tra mille cartine identiche: lei ne vedeva differenze inesistenti.

 

Eravamo saliti sull’arco olimpico, con le buste della spesa ad appesantirci. Volevamo guardare il tramonto da lì.

 

-Hai visto dove ti ho portato?

 

- Giulio è il tramonto più brutto della storia. Non è un panorama questo…è la ferrovia!

 

Le avevo fatto posare le buste per terra. L’avevo portata al centro del ponte e poi le avevo fatto alzare gli occhi verso il cielo. Proprio sopra la sua testa. Tutto era arancione, anche i suoi occhi neri lo divennero.

 

Rimase a guardare sopra di sé per un bel po’. Poi con la voce sottile mi disse:

 

-Credi che un giorno questo sarà nostro?

 

Io sorrisi, non capivo cosa volesse dire, ma capii che doveva essere qualcosa d’importante. Così l’abbracciai.

 

Fu lì che riuscii ad avvertire che l’amavo. Sul serio, non quell’amore che non sai mai come va a finire, quell’amore che ti fa stare sul chi vive sempre, che ti fa esitare per un suo silenzio, che ti tormenta quando sei lontano. Era un amore senza paure e a lei questo faceva molta paura.

Erano esattamente passati tre anni e lei continuava ad essere la stessa di quel giorno sulla panchina. Stava il sessanta per cento del tempo a cercare le cose che aveva perduto. L’altro quaranta lo impiegava con il suo lavoro di baby-sitter, la passione per la musica jazz e il lavoro all’uncinetto. Rimasuglio di una madre troppo severa, morta troppo presto.

 

Mi guardava proprio come si guardano i vecchi. Con la stessa consapevolezza e delicatezza negli occhi. Stava seduta sulla poltrona rossa e arancio, che mi aveva fatto comprare un pomeriggio come regalo del nostro primo anniversario. Mi guardava silenziosa, si era fermata dal lavoro ai ferri che stava facendo.

 

Io non mi accorsi, ero preso dal pezzo per il giornale. Dovevo scrivere un articolo sulla movida torinese e stavo creando un altro me. Un me che girovagava ogni sera per i locali, in cerca di alcool, donne e tanta buona musica. Un me che non aveva altro pensiero che lo sballo, un me dieci anni più giovane e con tanta più voglia di fare le cose per la prima volta e non per la seconda o la terza.

 

Mi guardava e poi non mi guardava più. Appoggiò la testa sulla poltrona, alzò la coperta fin sopra le spalle e chiuse gli occhi.

 

Lo chiamarono aneurisma. Perché è giusto dare un nome alle cose, mi disse il padre di Ania, quando venne a parlarmi in sala d’attesa. In tre anni l’avevo visto solo una volta, in tre anni Ania l’aveva visto solo una volta e quella volta avevano anche litigato. Eppure lui aveva più diritto di me a vedere il corpo senza vita di Ania e a parlare coi medici.

 

-Se uno diventa padre o madre, non è che deve per forza saperlo fare. Loro non ci sono riusciti con me. Ma non sono stati neanche coraggiosi: non c’hanno mica provato una seconda volta. Mi hanno lasciata da sola.

 

Mi aveva raccontato delle sue vacanza nel paese del padre, quando lei aveva tredici anni e lui provava a insegnarle a pescare, lei odiava pescare ma amava quel posto. Mi aveva raccontato di come la madre non riuscisse ad avere un atteggiamento affettuoso nei suoi confronti. Mi aveva raccontato di quella volta che il padre aveva aggredito sua madre, chiamandola “puttana”. Mi aveva raccontato di come una notte sua madre l’aveva svegliata per portarla in bagno e le aveva fatto lavare la faccia con la candeggina delicata, per sbiancarla.

 

-Sei come lui cazzo, sei una negra!

 

Ania non aveva mai capito perché si fossero uniti quei due, come del resto non aveva mai capito come si fossero conosciuti, né come mai avevano deciso di lasciarsi. Non sapeva come avessero preso accordi in riguardo, né se erano legalmente divorziati.

 

-Il punto è che non so neanche se si sono mai sposati.

 

Sorrideva mentre mi raccontava la sua vita. A volte lo faceva il pomeriggio, dopo che avevamo fatto l’amore. E mi accarezzava la schiena mentre il sole colorava lunghe ombre nella nostra mansarda. Non piangeva mai, neanche quando mi raccontò che era stata lei a trovare la madre morta: si era ammazzata con le pillole antidepressive, di cui lei ricordava ancora il nome, Parmodalin.

 

Ania morì così quel pomeriggio sulla poltrona, mentre io scrivevo il mio articolo. Morì senza avvisare, ed era tipico di Ania.

 

Mi lasciò un numero interminabile di dischi, un mucchio di oggetti suoi, considerati dispersi, ritrovati in posti assurdi.

 

A volte il pomeriggio, quando non avevo niente da fare, mi mettevo ad ascoltare la sua musica e sorridevo nel pensare che l’unica cosa che non ha mai perso erano quei dischi. Mi ricordavo la cura con cui li riponeva e la cura con cui li posizionava sul giradischi.

 

Un giorno presi uno dei suoi dischi preferiti. Chet Becker, Blue room. Quando partì la musica mi venne alla mente la prima volta che me l’aveva fatto ascoltare. Stavamo insieme da poco e mi aveva detto, ridendo.

 

- Devo essere un cane per sentirla. Alza il volume, no?

 

Risi così forte e così di gusto che dovetti rettificare i miei calcoli. Forse fu in quell’istante che capii di amarla.

 

-Vorrei proprio studiarlo questo momento di cui parli tu, in cui una persona capisce di amarne un’altra. Sarebbe interessante.

 

-Forse hai ragione Ania, forse non esiste quel momento, non può essere così preciso. E’ come se si ripetesse, in realtà.

 

-Ho cazzo- mi rispose lei, - Eccolo, eccolo. Questo è il mio momento.

 

E fu così sempre. In quei tre anni cercavamo il momento preciso e appena eravamo convinti lo gridavamo a voce alta.

 

-Eccolo ci siamo, è questo!

 

Fin quando quel pomeriggio, quando mi avvicinai per chiederle cosa voleva per cena. Nel momento in cui la mossi, prima piano e poi più forte, per svegliarla. Nel momento in cui capii che non si sarebbe svegliata, sarebbe rimasta per sempre così, con la bocca aperta e le mani incrociate sul grembo. Dopo tre anni di vita insieme, pensai che era quello il momento in cui la stavo amando più di me stesso.

 

Credo proprio sia iniziata così la mia mania. Col tempo però è diventata una costatazione.

 

Dopo essere stato in Senegal a spargere le sue ceneri, come voleva Ania, sulla sua terra d’origine. Dopo aver abbandonato la mansarda in piazza Vittorio e aver distrutto una cartina rimasta quasi del tutto intonsa. Dopo aver conosciuto mia moglie e aver ricominciato a provarci. Dopo il nostro primo, secondo, terzo figlio. Dopo i continui fallimenti e le poche vittorie.

 

Dopo aver capito che regalare i dischi di Ania a quel padre solo, in una terra mai diventata amica per lui, era la cosa più giusta.

 

Dopo tutto questo, posso dire che non mi importa sapere quale fu il “momento preciso in cui…”

 

Non ci fu un momento preciso con Ania, fu un susseguirsi di momenti.

 

Non era mai la prima volta che capivamo d’amarci, ma la seconda, la terza, la quarta…

M.D.Q.

bottom of page