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COCCINELLA

Quella era una delle giornate in cui mia nonna mi avrebbe detto qualcosa che gli altri non potevano sapere. Avevo attraversato di corsa tutto il paese. Il cuore mi esplodeva dentro. Guardavo la pietra bianca della parrocchia proiettarsi verso il cielo e  finire nella croce, che brillava più delle altre volte. Tutto era così luminoso da far quasi male agli occhi. Salii piano i gradini, mentre la fronte sudava, mi avvicinavo alla porta di legno massiccio, socchiusa. Mia madre mi aveva detto di chiamare il prete, senza perder tempo. Don Lello uscì veloce dalla sacrestia, non c’era un minuto da perdere. - Forza Maria, andiamo. Tua madre ci aspetta.-

Scesi lenta i gradini, dietro i suoi passi svelti. Mi distanziava sempre di più, ma sentire il mio piede affondare, passo dopo passo, nella ghiaia polverosa era un piacere che non poteva attendere. La strada, tra le vie minuscole del paese, era in salita. L’ombra tonda del prete d’un tratto mi fece ridere: la sua tunica, dipinta sulla terra bianca, ondeggiava ad ogni passo. Destra, sinistra. Ed io, a quel ritmo, facevo andare i miei di passi. Ripensavo a quella volta in cui mia nonna, dopo aver rubato dalla sacrestia l’abito della funzione, l’aveva indossato e andava in giro per il paese urlando eresie. Dopo aver fatto il giro di Casteddu, si fermò al centro della piazza davanti alla chiesa, con tutti noi dietro, aspettando che don Lello uscisse. E non appena lui mise un piede fuori, mia nonna iniziò a ballare, come fosse dentro una balera, era stata un’abile ballerina, una volta. Gridava il nome di Don Lello e quello di Dio e mille altre cose, -Forza Don Lello, si unisca a me. Facciamogli vedere, a nostro Signore, di che pasta siamo fatti! - Don Lello stava in silenzio, non l’avrebbe giudicata mai. Le andò incontro ed iniziò a ballare con lei, con la speranza di calmarla. I silenzi della gente si allungavano su di noi. Arrossii per lei. Mia madre venne veloce alle mie spalle, mi afferrò dal colletto del grembiule, così forte che per un istante pensai di morire soffocata. Mi trascinò correndo lungo il paese. Occhi bassi, sembrava volasse tenendo me appesa ad un centimetro da terra. Si storceva le caviglie sui suoi tacchi, ma sembrava essere più impegnata a parlare da sola che a sentire dolore. Poi, prima di entrare in casa, si abbassò e, fissando il mio sguardo al suo, mi disse seria: - Non devi darle retta, mai! Mariù u’capisti?-

Con lei mia nonna non parlava da anni. Io, all’insaputa di mia madre, il pomeriggio arrivavo al parco e lei allora iniziava a raccontarmi qualcosa della sua vita, guardandomi dritta negli occhi. Mi aspettava sempre al solito posto: il parco Leopardi, poco fuori il paese. Niente più del busto di Leopardi su quelle mattonelle esagonali. Lei mi aspettava seduta sulla panchina di ferro verde, alle sue spalle la statua, bronzata e muta. Appena mi vedeva sorrideva e calava la testa verso destra, rasserenandosi del fatto che non sarebbe rimasta sola. Batteva la sua mano accanto a lei e apriva le labbra, facendomi vedere quei denti, ingialliti da una vita di Marlboro rosse.

 – Ti aspettavo.-

Mia nonna aveva vissuto a Torino per molti anni, lavorando come operaia. Poi era tornata, quando aveva scoperto di essere incinta di mia madre. Non era sposata, non si sposò mai. Vedere a Casteddu una donna sola con un bambino era qualcosa di nuovo, che non veniva accettato e non lo sarebbe stato ancora per molti anni. Sia d’estate che d’inverno la trovavi in piazza ad aspettare silenziosa su quella panchina di ferro. La sua casa era l’intero paese. Ogni suo vicolo, ogni casa diroccata, ogni pietra di vita interrotta era pronta a darle riparo. C’erano giorni in cui mia madre, dopo la scuola, si incamminava con me verso il parco. Appena arrivavamo lei ci guardava e sorrideva. A volte la mamma le portava della roba: vestiti o cibo. Li lasciava sulla panchina.

- Mamma sai cos’è successo oggi? - Sapeva che non le avrebbe risposto. Le mani della nonna si allungavano, poggiandosi sulle ginocchia e stringendole forte come foglie secche. Dopo un po’ mamma decideva di tornare a casa. Si alzava e mi faceva segno di fare lo stesso. Quella vecchia donna allora allungava un braccio e le sfiorava delicata la veste, un secondo impercettibile tra pollice e indice.

- Mamma, perché non mi dici qualcosa, qualsiasi cosa. -  Si guardavano negli occhi, poi una delle due distoglieva lo sguardo. Ce ne andavamo via veloci. Lei ci guardava fino alla fine.

- Mi raccomando, Mariu’, non dire niente a tua madre.-

Era il nostro segreto. A volte la nonna si faceva trovare già sulla strada verso il paese, in piedi, di fronte la via da imboccare per tornare indietro. Io le arrivavo alle spalle, ma lei lo sapeva già. Si girava e mi sorrideva.

- Aspettavo solo te per tornare. –

Quando imboccammo la strada di casa il prete rallentò. Congiunse le mani in preghiera sul petto e calò la fronte verso terra. Tutti erano fuori dalle case, sui battenti e sugli scanni dei palazzi. Mentre passavamo rimanevano in silenzio, ma non appena l’ombra di don Lello si allontanava, ricominciavano a parlare a mezza voce. Non capivo cosa dicessero, ma lo so, l’ho sempre saputo, parlavano di mia nonna. A Casteddu la principale attività era legata ai campi di grano. Qua tutti avevano a che fare col grano; mia nonna era stata operaia in un industria che faceva frigoriferi. Quando era tornata incinta sua madre non aveva voluto più vederla. Ci sono cose che neanche l’amore di una madre può sopportare, le disse. Passò da sua zia gli ultimi mesi di gravidanza ed è a lei che affidò mia madre. Nonna rimase fuori ad aspettare. Don Lello pregava a bassa voce, concentrato. Era così alto che mi faceva da riparo per quel sole violento, sudava anch’egli. Gocce gli sbucavano fuori dalle tempie, scendendo veloci verso terra. Bagnavano il suolo, formando piccoli cerchi nella polvere. Teneva la Bibbia tra le mani, poggiata sul petto e gli occhi chiusi. L’avevo visto così solo un’altra volta. Quando era venuto a controllare come stava mia madre, un bel po’ di anni prima. Si era ammalata di polmonite e la nonna, allora, decise di tornare in casa, per starle vicino, in silenzio. Un giorno ero seduta sui gradini della palazzina di fronte casa. Sbirciavo le finestre della camera da letto di mia madre, per vederla. Dato che a me era stato vietato di entrare lì. Mentre aggiustava le tende, la nonna, si accorse di me e scese in strada.

- Tua madre non morirà, quindi non fare questa faccia.- Poi mi prese per mano e iniziò a correre. Correvamo lungo il paese come due treni. Veloci per i vicoli lastricati stretti, veloci verso i campi di grano ancora verdi e quei papaveri rossi che sbucavano tra gli steli immaturi. Mi disse di aprire le braccia e di volare contro il vento. Solo quando ero stanca, avrei dovuto lasciarmi cadere all’indietro, il grano avrebbe attutito la caduta. Io la seguivo e ridevo. Poi si fermò e si lasciò precipitare all’indietro. Non ero stanca, ma volevo cadergli vicino, quindi feci lo stesso. Mentre scivolavo verso il terreno guardavo il cielo allargarsi sopra di me, un mare fatto di nuvole. Arrivai a terra e subito mi avvolse col suo braccio. Era serena e rasserenò anche me.

- Vedrai, quando arriverà, correremo tutti insieme.-

Mentre il prete entrava in casa, mi sedetti sugli scalini davanti alla porta e con un legnetto, trovato a terra, iniziai a disegnare nella polvere. Un soffio di vento fresco mi fermò. Alzai gli occhi verso la via che si popolava piano di curiosi, poi riabbassai gli occhi e sul mio bastoncino una coccinella camminava piano. Sorrisi. Mia madre arrivò qualche secondo dopo, si sedette vicino a me. Aveva gli occhi gonfi e rossi, la voce le tremava.

- Vuoi salutarla? - Scossi la testa in silenzio. - Perché no? La nonna ti vuole bene. –

- Non voglio vederla così. –

- La nonna sta morendo. Ti sta aspettando, Mariù. -

Un pomeriggio decise di farmi vedere delle foto. Le teneva in una scatola di latta, dentro la baracca in cui andava a dormire d’estate. Vicino al convento dei cappuccini, nella parte alta di Casteddu. Arrivammo fin lì e da questa scatola tirò fuori almeno cento foto. Tutte immagini di lei a Torino ingiallite dal tempo. In fabbrica, lungo il Po’, al parco. Tra queste ce n’erano cinque con un uomo. Solo cinque, tutte scattate al parco. Doveva essere una giornata calda. Mia nonna portava un vestitino con le bretelle e un cappello di paglia col nastro, l’uomo accanto a lei aveva un sorriso incantevole. Ridevano, si guardavano negli occhi. Quando scendemmo lente la collina mi disse: - Deve arrivare, sai. Non so quando. Ma se vado ogni giorno là, al parco, lo vedo arrivare per prima, no?–

- Io verrò sempre, nonna.- Non mi ascoltava.

- Poi tua madre mi crederà e io potrò avere il coraggio.-

- Il coraggio per cosa?-

- Per parlarle, per dirle che non sono stata sempre così. Per farle vedere che avevo ragione ad aspettare qua fuori. E’ così strano, a volte sembra successo ieri e a volte non ricordo nemmeno a cosa pensavo. -

- Che cosa sembra successo ieri?-

 

Calò la testa, sorrideva. Era snella, faceva un passo dietro l’altro. I suoi anni sembravano scivolarle addosso, ma era in quegli occhi non più così verdi, in quelle mani tremanti, in quel capo ciondolante, come un indecisione perenne, che riconoscevo il tempo implacabile. Quel giorno mi fece capire che non era me che aspettava al parco.

Guardai mia madre. Sentivo che qualcosa, in quell’istante, stava venendo meno.

- Non è me che aspetta. - Mi alzai, lasciandole il bastoncino nelle mani, ed entrai in casa.

Mia madre rimase seduta, guardava quella coccinella. Qualche minuto dopo, quel piccolo essere muto, sarebbe volato via leggero come era arrivato.

M.D.Q.

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