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TI ASPETTAVO

​​16/07/2011

 

Rosa siede su una panchina davanti al mare rosso delle sei del pomeriggio. Schizzi d’acqua le arrivano in faccia. Sembrerebbe che i suoi sessantatre anni le scivolino addosso come l’acqua, eppure non è così, il sale le resta attaccato sulla pelle lineata. E’comunque rimasta snella e aggraziata nei movimenti. I suoi occhi non sono più verdi e non sono più così grandi, dietro quegli occhiali da vista, che le ho dovuto far mettere a forza. La bocca a volte le si torce in una smorfia sulla destra con un riflesso incondizionato. Piano, senza che ce ne accorgiamo, si fa sera. Mentre camminiamo per il lungo mare del paese, tra la gente che passeggia rumorosa, lei si ferma e si siede su un muretto di cemento. Lo fa ogni sera, sembra un rito ormai. Guarda il mare nero e la spiaggia, per tre quarti illuminata dai lampioni della strada. La luna piena è un gigante, come un riflettore sul mare calmo, osserva silenziosa, come ha sempre fatto. Mi siedo accanto a lei, non so cosa dire. Fin quando lei si gira con il sorriso sulle labbra, mi poggia la mano sinistra sulla mia.

 

-Allora, come va? Sei felice?-

 

Ogni giorno sento che di lei perdo qualcosa, ma non riesco mai a capire di cosa si tratta. Me ne accorgo poi: quando è troppo tardi. Il nostro appuntamento fisso è al parco Falcone, poco fuori il paese. In realtà, è una minuscola piazza circolare con cinque alberi a segnarne i contorni. Niente più del busto di Falcone su quelle mattonelle esagonali rosa e grigie. Lei mi aspetta seduta sulla panchina di ferro verde, alle sue spalle la statua bronzata e muta, davanti al lei il mare. Appena mi vede sorride e cala la testa verso destra, rasserenandosi del fatto che non rimarrà sola neanche oggi. Batte la sua mano di fianco a lei e apre le labbra, facendomi vedere quei denti ingialliti da una vita di Marlboro rosse.

 

 

 

- Ti aspettavo.-

 

A volte si fa trovare già sulla strada verso il paese, in piedi, di fronte la via da imboccare per tornare indietro. Io arrivo alle sue spalle, ma lei lo sa già. Si gira e mi sorride.

 

Passeggiamo lungo il breve viale fianco a fianco. Lei mi chiede sempre cosa faccio e se sono felice. Me lo chiede spesso, come se le importasse principalmente questo di me. Il terreno è in parte lastricato ed in parte levigato dalla natura; se non si sta attenti si potrebbe cadere rovinosamente. Rosa, ogni tanto, incomincia a salterellare intorno a me. La seguo con gli occhi, mi diverte e mi preoccupa. A volte cerca di prendere una coccinella lungo la via. Allora si concentra ed inizia a flirtare con l’insetto. Si piega sulle ginocchia, rumorose come fette biscottate, e prova ad avere pazienza. Quando finalmente ne sale una sulla sua mano, si rialza piano e me la fa vedere silenziosa. Dopo qualche secondo, muove la mano su e giù e la coccinella vola via. Allora ride. Il mare ci osserva, il rumore delle macchine, lontane, è a stento riconoscibile, si confonde con quello delle onde.

 

 

 

 

- E i tuoi figli?-

 

-I miei figli?-

 

- Sì, tu non hai figli, Pietro?-

 

- No, non ne ho. Tu?-

 

- Sì, io ne ho due. Ma sai mi confondo sempre e a volte dimentico i nomi. Ma sono dei bravi ragazzi. Lavorano tanto.-

 

- Capisco. Che cosa fanno?-

 

Lei si ferma, guarda verso il mare cercando di ricordare. Poi si gira confusa.

 

- Non mi ricordo. Forse, tu lo sai? Te l’ho già detto?-

 

- No, non mi hai mai parlato di loro.-

 

- Oh, ma come è possibile..-

 

Si cerca le mani aperte, coi palmi verso il cielo: cerca quella verità che lei non ricorda. Il tempo le ha rigato in un istante il volto con solchi profondi attorno alle labbra e le ha dipinto di bianco numerose ciocche. Il tempo le ha portato via molti dei suoi ricordi, ridandole indietro frammenti di una vita che non è mai stata sua. A volte, a metà strada, mi guarda seria e mi chiede di andarmene. Io non voglio, ma è inutile insistere. Così aspetto che lei sia distratta, mi nascondo e la seguo. Non posso lasciarla.

 

E’ iniziato tutto anni fa.

 

Era seduta nel prato, senza scarpe. Aveva gli occhi puntati verso il mare e sembrava non vedermi affatto, nonostante fossi a pochi metri. Mi avvicinai lento e sedetti accanto a lei.

 

- Cosa fai qui?-

 

- Guarda, guarda su. Sembra un topo con i denti da coniglio.-

 

- Ma cosa?-

 

- Su, nel cielo, le nuvole. Si sta spostano, è un topo, senza dubbio.-

 

Indicava una grossa nuvola dipinta sopra le nostre teste. Con la mano spinse, leggero come l’aria, il mio mento verso l’alto.

 

- Lo vedi?-

 

- Sì. -

 

- Bravo, bravo! E guarda lì, quella lì. Incredibile!-

 

- Quella a cosa assomiglia?-

 

Chiesi affascinato.

 

- Quella lì sembra un bambino che tira il lembo della gonna di sua madre.-

 

 

 

Lo disse ridendo, complice le sorrisi anch’io.

 

- Sì, è vero.-

 

- E poi il bimbo grida: “Andiamo, mamma. Andiamo!”-

 

Rise per qualche istante di quella sua battuta. Si portava una mano davanti alla bocca e rideva. Poi iniziò a piangere. Si incurvò su se stessa e si accasciò sulle mie gambe incrociate. L’avvolsi col mio braccio e le appoggiai il mento sulla schiena, piano.

 

- Sono qui, sono qui.-

 

Rosa ha avuto due aborti spontanei. Il suo corpo, ci dissero, non poteva ospitare un feto. Lo considerava una minaccia per l’organismo e lo attaccava con gli anticorpi, eliminandolo. Il giorno che tornammo a casa dall’ospedale lei si andò a sdraiare nel letto.

 

- Stammi vicino. Non lasciarmi.-

 

All’epoca non l’avrei lasciata per nulla al mondo. La sua fragilità era la cosa che mi rendeva più legato a lei. Come un filo indistruttibile, sentivo le nostre vite legate a prescindere dalle scelte che avremmo potuto fare singolarmente. Ho avuto il tempo per pensare ad ogni cosa ed il ricordo di quei giorni, dopo la seconda gravidanza interrotta, è la cosa che mi fa più male. Un giorno trovai Rosa sdraiata sul pavimento della camera da letto, in sottoveste. Stava prendendo quel poco di fresco che arrivava dalla finestra spalancata. Fuori c’erano quaranta gradi. Mi guardò sorridendo. Era il primo sorriso che mi faceva da quando tutto era accaduto: erano passati quattro mesi. Era bella come non mi ricordavo. Mi sdraiai vicino a lei e le accarezzai il volto.

 

- Facciamolo qui.-

 

Mi disse guardandomi negli occhi. Non mi dovette convincere. Aspettavo quello sguardo da tempo e in un attimo già le dedicavo tutte le attenzioni che l’amore merita.

 

Fece in modo da non poter più rimanere incinta. Non avrebbe potuto affrontare un altro aborto, mi disse. Era stravolta in viso quel giorno che entrò in clinica. Aveva appena trentasette anni e già portava addosso i segni di quella consapevolezza, che la vita consegna solo a chi ha veramente sofferto. La vita si perde in milioni di altre vie. La vita si perde e noi non ce ne accorgiamo, presi dalla voglia di rimanere per sempre. Fin quando, quella che sembrava una tragedia nella nostra vita, divenne solo, semplicemente: vita.

 

 

 

Quando uscimmo dallo studio del neurologo era il 16 maggio del 2004, lo ricordo bene. Camminavamo con la testa bassa entrambi. Lei teneva stretta tra le mani la sua borsetta di paglia, appena comprata. Ogni tanto inciampava su quei tacchi e allora alzava gli occhi, infastidita da se stessa, poi li riabbassava. Non voleva incontrare il mio sguardo. Io non volevo incontrare il suo. Arrivammo davanti al bar del lungo mare e lì si fermò.

 

 

 

- Sono stanca Pietro. Fermiamoci a prendere un caffè, ti va?-

 

Aveva un cappellino blu di paglia, con un nastro di raso bianco. E le sue ciglia nere e lunghe sbattevano più del solito sopra i suoi occhi umidi.

 

- Vorrei una sigaretta!-

 

- Rosa, hai promesso.-

 

-Sì, sì lo so. Ma a che serve ora.-

 

- Rosa..-

 

Lei allora fece un gesto con la mano per non farmi continuare. Poi ordinò il suo caffè. I tavolini davano sulla strada. Le auto sembravano muoversi fra di noi. Una macchina, una folata di vento.

 

- Con tutto lo smog che c’è, figuriamoci. Uno potrebbe fumarsi anche mille sigarette al giorno.-

 

Poi prese un fazzolettino dalla borsa che teneva sulle ginocchia. Si soffiò il naso e mentre lo faceva mi guardava fisso negli occhi. Arrabbiata. Io ero assente, lo ero dal momento in cui il medico aveva detto demenza senile precoce.

 

- Ascoltami.-

 

Poggiò i gomiti sul tavolino di ferro bucherellato e avvicinò le mani alla bocca.

 

- C’è una leggenda cinese..-

 

- Ti prego, Rosa!-

 

- Lasciami parlare, per l’amor di Dio!-

 

Abbassai gli occhi sul menù. Un suono di clacson continuo ci fece girare entrambi. Qualcuno, su una Toyota nera, sventolava un fazzoletto bianco dal finestrino. La macchina si apriva un varco tra le altre auto in fila, che si separavano accorgendosi dell’urgenza. Il fazzoletto di Rosa volò via, scivolandole tra le dita e scappando veloce davanti al suo volto. Non provò a prenderlo. Mi guardò: io seguivo il piccolo pezzo di carta bianca ondeggiare nell’aria sempre più lontano. Fin quando per un istante il fazzoletto di Rosa si confuse con quello che era fuori dal finestrino della macchina in fuga. Un istante in cui, quasi, si sfiorarono.

 

- C’è una leggenda cinese. Dice che il dio del matrimonio, ogni volta che si celebrano delle nozze, scende ad assistere. Se benedice l’unione, allora lega le caviglie dei due con un nastro di raso rosso. Cosicché nessuno possa più dividerli.-

 

Sciolse le sue mani, allungò la destra verso la mia mano e la sfiorò con la punta delle dita, giusto un secondo. Poi la poggiò sopra, come una foglia secca.

 

- In realtà questo nastro è già esistente dalla nascita di entrambi, è il destino che l’ha creato dal nulla. Non lo si può vedere: ma prima o poi loro si uniranno come marito e moglie. Capisci, è impossibile slegare il filo. -

 

 

 

La sua bocca tremava.

 

- Tu credi a questa storia, chi te l’ha raccontata?-

 

- Mia nonna.-

 

- Tu ci credi?-

 

- Mia nonna non mi ha mai mentito.-

 

La sua mano stringeva sempre più forte la mia e un grumo amaro mi si annodava nella gola.

 

- Non ti lascerò, Rosa. Se è questo che mi stai chiedendo.-

 

A quel punto si allungò sul tavolo poggiando la fronte sul piano fresco. Iniziò a piangere silenziosa, mentre il cameriere guardava incuriosito da dentro il bar.

 

Così il tempo passava. Il parco Falcone segnava per noi le ore. Ci ricordava, attraverso i suoi mutamenti, i nostri.

 

Poi un giorno era distesa sull’erba a pancia in giù, mentre io accanto a lei leggevo un libro. Il sole era forte. Lei mi guardava seria.

 

- Mi resterai vicino, comunque? Per quanto tempo ancora sarò così lucida?-

 

- No, Rosa. Non si può dire. Non è così matematico. Ognuno.. -

 

- Noi siamo legati?-

 

Sospirai, - Sì, siamo legati!-

 

Mi alzai. Mi allontanai da lei, mentre lei ancora borbottava. Arrivai fino alla costa rocciosa. Il mio libro, Resta con me, era chiuso nella mano destra. Avrei voluto urlare. Alzai il braccio, presi bene la mira con gli occhi e lanciai il più forte possibile il libro. Mi concentrai così tanto che riuscii a distinguere perfettamente il momento in cui il libro scivolava via dalle mie mani. Quella perdita, quell’assenza impercettibile, mi rasserenò. Rosa rimaneva a guardarmi da lontana stupita e consapevole, allo stesso tempo.

 

Il silenzio della coscienza è uno dei fardelli più grandi da portare dentro di sé, ti impedisce di tornare sui tuoi passi e capirne l'importanza e ti impedisce di andare avanti non schiarendoti la strada da seguire. E’ come un’“assenza in essere”, uno stato dell'anima- posto che essa esista- in cui ogni sforzo è nullo. Così i nostri giorni andavano avanti tra le sue lezioni di letteratura italiana all’università e i miei corsi all’interno delle aziende. Niente avrebbe potuto fermarci: noi volevamo vivere la nostra vita, insieme. Nonostante i dolori e le perplessità.

 

Rosa portava sempre un quaderno con sé. Lì appuntava ogni cosa degna di nota. Un giorno, qualche mese dopo la diagnosi della sua malattia, mi disse che, arrivato ad un certo punto, avrei dovuto prendere quel quaderno e considerarlo mio. Le risposi che non sarebbe giunto quel momento, che avremmo vissuto la sua malattia come una sfida. Insieme. L’avremmo rallentata. Lei non mi volle credere e neanche io, in realtà, credevo alle mie parole.

 

Il vento ci benedisse un pomeriggio verso le sei. Era un vento fresco, di quelli che vengono dal nord. Stavamo passeggiando lungo la costa. La sabbia si infilava tra le dita dei piedi. Quando il vento ci raggiunse da dietro e ci avvolse. I nostri capelli volavano impazziti come i vestiti. Prima iniziammo a correre per ripararci. Poi, però, Rosa iniziò a ridere come una bambina. Rideva e girava su se stessa, correva avanti e poi tornava indietro. Io la guardavo. Aveva sessant’anni e sembrava una ragazzina. Le presi la vita ed incominciammo a ballare sotto la pioggia leggera che scendeva per benedirci. Noi. Due vecchi che si amavano.

 

Ci amavamo davvero Rosa ed io. Era l’unica cosa che riconosco certa in questa mia esistenza. La malattia me la portò via d’un colpo, se è possibile. Eravamo al supermercato, quando non la trovai più. Feci cercare a tutti i commessi del negozio in ogni angolo. Chiamai la polizia, rimasi ore a piedi e poi in macchina cercandola, ma niente. Piansi, mi disperai. Fino a quando la sera nella mia veranda non ritrovai la calma. Fumavo il mio sigaro e il telefono squillò.

 

-Signor Basetti.-

 

-Sì. -

 

-Abbiamo trovato sua moglie. E’ sotto shock. L’abbiamo portata all’ospedale.-

 

Quando la riportai a casa, quella notte stessa, nell’aria c’era un forte odore di pioggia. Non aveva piovuto, quindi voleva poter dire che di lì a poco ci sarebbe stato un temporale. Non aveva parlato per tutto il tragitto in auto. Fino alla porta di casa. Quando mi chiese di prenderle il quaderno e di portarlo in veranda.

 

-Voglio vedere l’inizio del temporale.-

 

Feci un cenno di sì con la testa. Il primo tuono riecheggiò nella casa, mentre prendevo il quaderno dalla sua scrivania. Il secondo arrivò puntuale con un lampo, mentre scendevo le scale. Una volta tornato in veranda la pioggia stava scendendo fitta. Lei era accucciata davanti alla porta della veranda.

 

-Rosa..-

 

-Schsss…senti il rumore della pioggia sulla terra. E’ meraviglioso. -

 

Una ragazza che veniva dal passato. Rosa. La stessa che mi aveva fatto innamorare quarant’anni prima. Mi guardava mentre scriveva veloce sui fogli del suo quaderno. L’odore del mio sigaro le è sempre piaciuto. Voleva che lo fumassi accanto a lei. Anche quella sera mi sedetti accanto a lei, nel tentativo inutile di contare quante gocce cadevano al secondo, dimenticai quello che era accaduto.

 

Gli uomini dall’inizio dei tempi vedono nella religione ed in Dio la soluzione a quei mali cui loro non posso porre rimedio, né trovare soluzione. Vivono il mistero della Fede come unica fonte di salvezza e di vita dopo la morte. Convinti come sono che qualsiasi male fatto in questa vita e dalla vita sia una prova da affrontare per ottenere quella eterna. Vivono i loro giorni con quella luce nel cuore che si chiama speranza.

 

- Anche se non ci vedremo più, ricordati di me. -

 

-Noi ci vedremo, Rosa. Smettila, devo andare via per lavoro, ma non ti preoccupare. Ritorno da te. -

 

- Sì, vai. Infondo la speranza è l’ultima a morire.-

 

- Ma che dici Rosa, stai tranquilla.-

 

Rimasi via per due settimane, che mi sembrarono un’eternità. Sapevo che lei mi stava aspettando a casa. Avevo paura non mangiasse e non si curasse. Avevo chiesto ad una sua amica di andarla a trovare. Quando tornai la trovai più magra di molto. Scavata in volto e pallida. Parlava a stento e a stento mi salutò. Poi come se nulla fosse mi disse quello che non avrei mai voluto sentire.

 

- Vado in una clinica, qui vicino. Là mi aiuteranno. Mi hanno detto che hanno molti casi come il mio. Mi hanno detto che, se presa in tempo la malattia, possono essere rallentati di molto gli effetti. -

 

-Rosa che cosa dici? Tu resti qui con me. –

 

-No! Non è giusto, non si discute!-

 

Piangeva senza riuscire a fermarsi ed anche io incominciai a piangere. La strinsi a me. Della clinica le aveva parlato quella sua amica, la stessa che avevo messo a vegliarla. Pensai di aver fatto lo sbaglio più grande. Cercai di farle cambiare idea nei giorni seguenti. Ma se ne andò lo stesso. Una mattina che faceva molto caldo, sorridendomi, si girò e andò verso la macchina che era venuta prenderla. Quella della sua amica. Non si voltò più, neanche un secondo.

 

Ora potevo vederla una volta a settimana, potevo farla uscire con me. Portarla a cena e farle vivere ancora una volta un po’ di quell’amore che non ho smesso mai di provare per lei. La portavo sul molo e le raccontavo di noi. A volte ricordava qualcosa, a volte ricordava tutto. Altre volte, invece, le ero estraneo.

 

Qualche giorno dopo il suo ricovero nella casa di cura, mi ha fatto recapitare a casa il suo quaderno. Non ero riuscito ancora a leggerlo. Nel biglietto che lo presentava ai miei occhi c’era scritto “ Per te..come sempre”. Il suo dono era un peso troppo grande da sostenere. Poi la dottoressa, una settimana dopo, mi aveva chiesto di farglielo leggere, al fine di capire meglio la psicologia della sua paziente: mia moglie.

 

Allora mi sono detto che se c’era qualcuno autorizzato a leggerlo, potevo essere solo io. Mi sedetti alla sua scrivania e iniziai a leggere.

 

Dal quaderno di Rosa.

 

Mi trovo nella spiaggia, di fronte al mare trasparente. Ho le mani nelle tasche. La spiaggia è deserta e un forte vento del nord mi avvolge. C’è una donna in fondo che raccoglie i detriti del mare. La marea divora sempre più spiaggia. Mi avvicino alla donna. Sapevo già, in realtà, che l’avrei trovata qui. Lei fissa il mare senza vederlo. Perfino il vento le tira i vestiti, ma nulla la distoglie.

 

La donna ha qualcosa che mi commuove e mi sconvolge, saranno i suoi occhi lucidi, il suo corpo esile. La conosco, ma lei non sembra conoscere me. La donna continua la sua ricerca tra i rifiuti del mare. Sembra impassibile ai miei occhi, fissi su di lei. Poi ancora più vicina, mi pianto davanti a lei. Alza lo sguardo. Abbiamo gli stessi occhi, dello stesso colore e forma. Probabilmente anche la stessa espressione.

 

Le stesse mani e la stessa corporatura. Lei si leva il cappuccio dell’impermeabile che indossa. I suoi capelli sono come i miei.

 

Siamo identiche. Siamo la stessa cosa.

 

Il cielo tuona e lei allunga una mano verso di me. Mi afferra un polso e mi parla. Ma nonostante le sue labbra si muovano non emettono suono.

 

So, però, cosa mi vuole dire. Lo so per certo.

 

Mi dice che mi aspettava.

 

 

 

*

 

Rosa non mi ha mai parlato dei suoi sogni. Solo leggendo il suo quaderno ho capito, come da anni, la verità le era già stata posta davanti agli occhi. Quel sogno era datato 4 aprile 2001. Ancora la malattia si doveva manifestare, ma lei già aveva capito.

 

Per questo oggi mi sono convinto a scrivere anche io, sopra le ultime pagine di questo quaderno logoro. Mi rendo conto di essere stato solo una comparsa nella sua vita. Mi fa male. Il suo quaderno è pieno di questi sogni e racconti. Tutti presagi di un futuro che per lei era già passato. Rosa stava vivendo una vita a ritroso e per questo si era attaccata a me, come unica possibilità per andare avanti. Che sia possibile?

 

I mesi sono passati sopra di noi, investendoci con le loro giornate afose e le grandini. Hanno lavato via un po’ di quella solitudine che ero costretto a vivere per volere di Rosa. Alla fine, dopo circa un anno, mi chiamò. Mi chiese di andarla a prendere.

 

- Solo se mi vuoi ancora.-

 

Ho preso la macchina e sono corso da lei.

 

Il futuro è quello che è, forse non ci aiutò restare insieme. Forse non aiutò lei. Quando arrivammo a casa mi regalò un libro. Me lo fece trovare sul letto, tra le lenzuola. Un libro della Strouth, Resta con me. Ricordava.

 

Io le ridiedi il quaderno: era suo.

 

16/07/2011

 

La sera le vie del paese si popolano di vecchi, bambini e coppiette. C’è troppo caldo per rimanere a casa. Siedo su un muretto di cemento, guardo il mare illuminato dalla luna. Siamo tornati per restare questa volta, questa è l’unica cosa chiara. Volevo tornare a casa. E Pietro mi è venuto a prendere subito. In questa terra dove le ore sono tutte le stesse, io rimango immobile tra le stagioni, mentre lui si muove inesorabilmente come fanno le onde.

 

Dalla mia borsetta di paglia tiro fuori un nastro rosso. Lo guardo seria e mi lego una caviglia.

 

- Ora tocca a te!-

 

Gli dico. Lui sembra ricordare. Fa lo stesso, si lega il nastro alla caviglia. Mi guarda mentre io gli stringo forte la mano.

 

- Ti aspettavo, Pietro.-

 

 

 

Forse la morte non esiste, forse il solo ricordo che serbiamo nella nostra mente ci renderà eterni. Magari il nostro spirito continuerà a transitare in forme nuove e diverse. O forse moriremo e ci perderemo. Ma quello che posso dire ora è che io e Rosa siamo stati benedetti da qualcosa di più grande di noi. E nello scrivere queste ultime pagine, sapendo che lei non mi accompagna più in questa vita, sono sempre più convinto di una cosa: il nostro filo rosso non verrà mai sciolto.

M.D.Q.

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