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SIAMO SOLO TEMPO

Non avevo mai visto nessuno morire di fame, non me l’aspettavo, ma ci avrei messo tanto. Le finestre avevano tende spesse che odoravano di piscio, sudice da far schifo, i mobiletti componibili anni cinquanta avevano gli stipetti che non chiudevano più, dentro solo piatti e bicchieri spaiati, farina che puzzava di umido, pasta, sale, zucchero. Nulla che fosse necessario a farmi scappare, ma non so se in caso contrario avrei provato a farlo.

 

Nei miei sogni è sempre sera. Le luci delle vie sono riflesse dall’asfalto umido. Ha smesso di piovere da poco. Potrebbe essere autunno inoltrato o uno di quei primi giorni d’inverno mitigati dallo scirocco. Le auto hanno smesso da un po’ di invadere la città. Potrei essere ovunque, poco importa. Il più delle volte mi sento solo. È solo una sensazione perché se mi volto posso vedere qualche amico caro, un familiare, mia madre.

 

Mi ripetevo che non sarebbe durata molto l’agonia, piano avrei abbandonato il mio corpo e la mia mente ancora troppo sobria. Non sarebbe durato molto il morso della fame, infine me ne sarei liberato e non sarebbe stato così difficile resistervi senza impazzire. Incatenato ad un pilastro di ferro arrugginito di fronte il lavabo, imbavagliato e lasciato ad ammuffire in quella cascina, in mezzo al nulla. Ero in attesa, come un amante impaziente o un cane fedele, del loro ritorno.

 

Nei miei sogni passeggio silenzioso, ogni tanto mi fermo da un venditore di caldarroste, come quando ero piccolo, le faccio mettere in un sacchettino e le porto con me tra le mani che si riscaldano, non le mangio, però. Poi lei mi è accanto, è diventata un’abitudine. Mi sorride ed io tremo e sono sereno. Penso di non aver visto mai donna più bella.

 

Sarei morto, si muore di fame e di sete, prima non ero sicuro. La televisione che mi avevano lasciato accesa, per tenermi compagnia mi dissero clementi, divenne la mia peggior nemica. Non smetteva di ricordarmi che lì fuori c’era una vita che non avrei vissuto mai più. Sentivo le mie labbra seccare, le braccia e le gambe erano stanche di quella posizione, già loro erano morte, il respiro diventava debole. Tutto divenne lento intorno a me. Il ratto che mi girava intorno, lentamente iniziò a rosicchiare il mio alluce. Solo nausea.

 

Le chiedo perché, perché tutto questo non mi turba, perché mi solleva; è solo, il come è avvenuto che mi angoscia. C’è chi può scegliere come morire, era un mio diritto farlo. Lei ride, mi accarezza il volto e poi la luce della luna la illumina, sabbia argentata di un atollo che non conosco. Mi dice “Siamo solo tempo.”

 

D’un tratto sentii dei rumori, ma non riuscivo ad aprire gli occhi, la pesantezza delle palpebre era uno sforzo che non potevo affrontare. La mia testa ormai vagava in lidi sereni. Iniziarono a muovermi, mi davano calci, mi sollevavano e mi gettavano acqua in faccia, acqua. Ero vivo. Era acqua. Un uomo, uno dei miei carcerieri, uno dei miei salvatori, all’orecchio mi disse “ Hey, bello non morire. Dai torni a casa, hanno pagato.”

 

Inizio a piangere, non piangevo dalla morte di mia madre. La donna si allontana piano, mi dà le spalle non vuole più vedermi. E’ delusa, lo sono anch’io di me. Così vicino a lei che ora la disperazione mi devasta nel saper di dover ritornare. Sono di nuovo solo, è sera. E’ sempre sera nei miei sogni.

M.D.Q.

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