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ROSA

 

Non aveva ancora visto abbastanza, eppure non volle più parlare. Non volle più vedere, non volle più conoscere quello che in realtà si dispiegava davanti ai suoi occhi. Perché in quel dolore dell’essere che l’accomunava agli altri, là dentro, non ritrovava più quella forza, quella voglia che l’avrebbe dovuta spingere a rinascere. Perché quei luoghi erano aridi deserti, come le persone che le stavano intorno. Il dolore le spaccava la testa, ma niente di tutto ciò che lei vedeva era dimostrabile. Era chiusa nel labirinto che la sua mente, per difendersi dal mondo di tutti, aveva creato. In questo modo non avrebbe sentito più quel dolore, quell’odore e quelle mani. Non avrebbe più provato quell’angoscia che saliva dal ventre verso la testa, e le esplodeva fuori da quegli occhi verdi.

 

Io l’ho conosciuta quando i suoi occhi non erano più così verdi. Annebbiati e ingrigiti da quegli anni che le avevano imbiancato grandi ciocche di cappelli e rigato la pelle attorno alle labbra sottili. Lei giura che quando era giovane i suoi occhi lo erano, grandi e verdi come quelli dei gatti. Del suo passato mi parlò molto tempo dopo averla conosciuta. Credo, però, che sia la cosa più giusta raccontarne una parte.

 

Rosa mi guarda mentre scrivo, seduto sotto il porticato, sorrido ad ogni suo sguardo. Non so se abbia davvero capito che scrivo qualcosa che la riguarda. Rosa coltiva le sue piante grasse in giardino, i gatti le gironzolano intorno, dandole fastidio, ma a lei questo infondo piace. Le piace avere qualcuno che non smetterebbe mai di starle accanto e amarla. Una volta le chiesi perché non provasse a piantare gerani o rose, o qualsiasi altra pianta colorata, che quantomeno sembrasse viva. Mi ha risposto una volta, solo una. Mentre guardavamo i suoi cactus e longimamme da lontano, lei si girò e mi disse,

 

 

– Loro sono come me! –

 

Nel 1972 Rosa si trovava nell’ospedale psichiatrico, ovvero manicomio, di S. Lazzaro a Reggio Emilia. Era stata portata qui dopo aver trascorso un periodo di internato nel manicomio di Palermo. I medici di Palermo, allegarono questo commento finale alla cartella di Rosa: “La paziente è orientata nel tempo e nello spazio, equilibrata, parla bene, risponde a tono alle domande”.

 

Era stata portata lì nel luglio dello stesso anno dai genitori. Ricoverata quasi subito quando alla domanda del medico – Chi è stato?- Lei rispose piangendo, - Lo giuro, il demonio, lo giuro è stato lui!- Sembrava troppo per tutti, sembrava troppo. La famiglia di Rosa era di Carini, un paesino sul mare, vicino Palermo. E lì era sempre stata una ragazza speciale, meglio dire diversa. Da piccola non aveva mai giocato con gli altri bambini e non ne sentiva la mancanza. Seduta a terra, nella sua stanza lasciava che il vento del mare entrasse dalle finestre aperte, mentre lei leggeva romanzi d’avventura, che la madre le regalava per vederla sorridere. Distesa pancia in giù, sfogliava le pagine e immaginava quei luoghi che, sapeva, mai avrebbe visto con gli occhi. A scuola era sempre silenziosa e la maestra non sapeva neanche se Rosa sapesse leggere sul serio, nonostante la madre le raccontasse dei libri. Con lei, Rosa non aveva mai letto. L’aveva assegnata ad una maestra di sostegno. Lì insieme ad una bambina audiolesa e a uno ragazzino down imparò a crescere senza urla e senza parole superflue, ma con i gesti, imparò ad ascoltare il mondo, anziché cercare di sovrastarlo. Lasciò la scuola alla quinta elementare. Rosa cresceva e diventava bella, bella come uno schizzo d’acqua in faccia in una giornata di sole, su un viso arso dalla calura. All’età di sedici anni si rese conto che il suo corpo non era più quello di una bambina e incominciò a fare caso a quelle voci che venivano dalla strada. Ai ragazzi che, proprio nel bar sotto casa sua, si ritrovavano il pomeriggio, dopo l’ora della siesta. Fin quando un giorno decise di affacciarsi e farsi vedere. A Carini si parlava spesso di lei, del fatto che non usciva mai, del fatto che doveva avere qualche problema. Del fatto che forse era pazza. Il padre era un ferroviere, stava poco a casa, ma voleva molto bene a Rosa.

 

 

Quando le chiedo di parlarmi di lui mi racconta sempre un momento, un giorno che passarono insieme, quando lei deve aver avuto, secondo i miei calcoli, circa tredici anni. Mi racconta sempre lo stesso giorno, come volesse tenerlo fermo nella sua mente labile.

 

“Era aprile e mio padre si era rotto un braccio a lavoro, quindi l’avevano lasciato a casa a riposarsi. Mi svegliò una mattina presto e mi disse – Vuoi venire a prendere le coccinelle con papà?- Saltai giù dal letto ed infilai in un baleno il vestito bianco, quello che preferivo. Non l’aveva mai fatto, non mi aveva mai chiesto una cosa del genere, ma perché perdere tempo a chiedersi perché. Corremmo lungo il paese come due treni. Via per i vicoli lastricati stretti, col sole alto a bagnarci la testa, verso i campi di grano ancora verdi e quei papaveri rossi che sbucavano a milioni tra gli steli immaturi. Mio padre mi disse di aprire le braccia e di correre contro il vento. Di sentire l’aria entrarmi nei polmoni. Mi disse che lui faceva la stessa cosa, quando era piccolo come me. Poi, solo quando ero stanca, avrei dovuto lasciarmi cadere all’indietro, il grano avrebbe attutito la caduta. Io lo seguivo e ridevo, ma non urlavo di gioia, mi bastava sentire che lo faceva lui. Poi si fermò e si lasciò precipitare all’indietro. Io non ero stanca, ma volevo cadergli vicino, quindi feci lo stesso. Mentre scivolavo verso il terreno guardavo il cielo allargarsi sopra di me, ridevo. Arrivata a terra lui mi strinse a sé col braccio che poteva muovere e incominciò a spiegarmi come si catturano le coccinelle. Aveva portato con sé un barattolo di vetro, quello delle conserve della mamma. Bisognava avvicinarsi agli insetti rossi e neri piano, mettere un dito vicino a loro e aspettare che con le loro minuscole zampette salissero sul dito. Poi infilarlo nel barattolo e muoverlo giusto un po’. La coccinella sarebbe caduta dentro senza farsi male. Mise anche uno stelo di grano dentro il barattolo, per riprodurre il suo ambiente, mi disse saggio. Passammo l’intera mattinata a cercare e prendere coccinelle. Verso la mezza disse che era tardi, dovevamo tornare a casa, la mamma ci aspettava per pranzo, ma non era finita qui. Salimmo su un trattore lasciato incustodito e poi mi urlò, - Apri il barattolo Rosa, lasciale volare via, su è giù, così..- Io obbedì, mi fidavo ciecamente. Ne avevamo raccolte trentadue e piano uscirono volando via tutte. Fu così divertente che ancora oggi mi viene da ridere quando vedo una coccinella. Quando vedo una coccinella penso a mio padre.”

 

Mancavano sei anni alla legge Basaglia, erano troppi. Rosa non ebbe la fortuna che aveva avuto a Palermo. Lì l’avevano trattata bene, ma non era migliorata, in più, continuare a dire che il demonio era il colpevole, non aveva di certo aiutato la ragazza. Così la situazione li spinse a farla trasferire, convinti che in un manicomio più attrezzato e con medici più esperti avrebbe risolto la sua situazione mentale, così la definirono mentre parlavano con la famiglia. Il padre e la madre di Rosa erano persone umili, non si sapevano molte cose all’epoca e probabilmente non si rendevano conto della condanna che inflissero alla loro unica figlia, firmando il trasferimento al S. Lazzaro, nel dicembre del ’72. Qui, quando già i primi cambiamenti erano stati assimilati e assorbiti, si rese conto che non avrebbe più rivisto la sua famiglia, Carini e il mare della Sicilia. Rosa mi raccontò che la prima cosa che la stupì fu una donna che viveva ormai da tre anni distesa su un letto.

 

 

“Era senza forme,” mi disse un giorno, “non riuscivo a capire dove erano le ginocchia e le anche e i gomiti. Era diventata un unico pezzo, con una testa. A volte mi chiedeva di aggiustarle il cuscino. L’infermiera, però, mi diceva che doveva stare con la testa abbassata, non doveva vedere che il tetto umido. Era legata mani e piedi, con lacci di cuoio e aveva piaghe, ovunque. La mattina venivano a pulirla e a farle fare i bisogni. Così la spogliavano e io vedevo quanto dolore c’era nelle sue carni. Faceva sempre profumo di borotalco alla menta, quando mi avvicinavo io. Lo mettevano sulle piaghe e questo le dava ancora quel fascino ai miei occhi, che ormai per tutti gli altri l’aveva abbandonata per sempre. Una mattina mi svegliai con la voglia di sapere perché era lì, perché non poteva più muoversi. Io non ho mai fatto molte domande, infondo credo che se una persona non dice le cose di sua spontanea volontà è perché non le vuole dire, punto. Quindi non ho mai fatto molte domande, però, quella mattina una curiosità terribile mi prese. La donna aveva ventitre anni, era una bambina quando era entrata lì dentro. Suo padre l’aveva fatta chiudere lì, perché lei continuava a dire di vedere i morti, che le parlavano e le dicevano le cose brutte che sarebbero successe ai suoi amici e parenti. Mi disse che di notte arrivavano e la svegliavano, le facevano vedere immagini orribili e lei finiva con il gridare e chiamare aiuto. Suo padre non ne poteva più, tutti parlavano male di lui e di quella figlia immischiata con il diavolo. Così, sotto consiglio del medico l’aveva fatta rinchiudere lì. Dopo qualche notte in cui le sue visioni aumentarono, il medico, che l’aveva in cura, decise che era un pericolo per sé e per gli altri ospiti della struttura, così la fece legare al letto. Prima solo la notte, poi qualche ora al giorno. Poi smise di urlare, credendo che così l’avrebbero liberata. Ma al contrario, pensarono che la terapia stava facendo effetto, così la costrinsero a letto sempre. Dopo qualche mese non riuscì ad usare più bene le gambe e dopo il primo anno, quando la rimisero in piedi, cadde sbattendo la faccia a terra, si sentì male e vomitò. Così decisero che non l’avrebbero alzata più.”

 

Mentre parlava con Rosa, la donna piangeva. Ma lo faceva in silenzio, non voleva essere scoperta, non voleva che qualcuno sentisse quelle parole, perché aveva paura. - Vedi ancora i morti?- Le chiese quasi sottovoce Rosa. - Sì, tutto il giorno, anche adesso. Ma non urlò più. Ho imparato a non dire più nulla.-

 

Quando Rosa era piccola sua madre fece venire a casa una signora che diceva di parlare con i morti, per cercare di entrare in contatto con la madre defunta da poco. Rosa la trovava la cosa più normale del mondo, lo facevano tutti in paese, ma forse iniziò a pensare che per il mondo non lo fosse.

 

Le fu assegnato uno psicologo, come prevedeva la legge Mariotti del ’68. Era un uomo molto elegante nei movimenti, quasi effeminato per Rosa, con un accento nordico. Aveva studiato psichiatria, ma di Rosa era lo psicologo. Niente di più, le disse. Le piaceva parlare con lui e a volte dimenticava anche che si trattasse di un medico e che, per quanto potesse averla a cuore, era lì per valutare la sua salute mentale. Parlavano dei libri che Rosa aveva letto, del fatto che le mancava leggere e avrebbe voluto farlo ancora, se era possibile. Parlarono della possibilità di uscire fuori, qualche volta, per vedere un po’ com’era fatta la città; parlarono anche della donna sdraiata e di come le faceva impressione vederla ogni mattina quando si alzava. Parlarono del tempo che scorre e ci scivola via tra le mani, di come la sua mano diventava sempre più tremante ogni giorno che passava, ad ogni farmaco che le davano. Il dottore si chiamava Luigi. Lei lo chiamava dott. Gigi e a lui stava bene. Parlavano della luce del sole alle tre del pomeriggio, quella che Rosa preferiva per passeggiare con lui nel cortile. Per la maggior parte del tempo Rosa restava in silenzio, in realtà, a guardarsi intorno, mentre lui appuntava chissà quali parole su quel blocco con la copertina in pelle nera, che gli aveva regalato sua moglie. Ridendo me lo sussurrò Rosa.

 

– Cosa ti piace?- le chiese un giorno Gigi, – I colori e i braccialetti.- Il dottore iniziò a portarle perline e filo e le faceva comporre braccialetti, mentre lui appuntava ogni suo gesto, riso e parola detta fra una perlina e un nastro color pastello. Rosa era una ragazza di diciannove anni, era piccola, come la stragrande maggioranza delle donne rinchiuse in quella sezione del manicomio. Con quegli occhi di giovane donna, strappata così violentemente da una vita di bambole e racconti di isole deserte e castelli meravigliosi, era stata catapultata in una realtà dove nulla le sembrava familiare, dove nessuno le sembrava amico, se non il dott. Gigi. Lui le sembrò più vicino degli altri. Poi un pomeriggio, mentre rientravano dalla passeggiata, lui le chiese come mai era stata ricoverata, perché aveva detto che il demonio l’aveva presa. Immagino Rosa, con quelle buffe facce che tutt’ora mi fa se le chiedo qualcosa di scomodo. Immagino che gli fece una faccia da intontita, come per dirgli che lei non sapeva a cosa si riferisse. Così lui incalzò, dicendole e facendole ritornare alla mente quei momenti, che aveva volutamente rimosso. Le ricordò di come fosse scappata quella notte di un anno prima; di come si fosse trovata sulla spiaggia, insieme a quei tre ragazzi; di come avesse avuto rapporti sessuali con ognuno di loro; e di come la mattina seguente fosse tornata tremante e sudicia dalla madre. Le ricordò di quello che le fecero passare i genitori, picchiandola e insultandola, per farsi dire chi era stato e come aveva potuto fare questo. Ricordò a Rosa di come qualche settimana dopo si accorsero che era incinta; di come la madre si procurò il nome di un ginecologo per farla abortire clandestinamente; di come lo fecero al secondo mese di gravidanza. La faccia di Rosa cambiò, non era intontita o confusa. Era triste e decisa. Spinse il dottore giù per le scale e lo guardò ruzzolare in silenzio. Poi si girò e andò nello stanzone, si sdraiò sul suo letto; mentre, come un pesce, la donna sdraiata la guardava con gli occhi girati a sinistra.

 

 

- Ora ti verranno a prendere.-

 

Le parole della donna pesce le si puntellarono al centro della testa, fisse nella sua memoria, si confusero con le immagini che le affollavano la vista. Mentre per le scale un mormorio sempre più alto si levava. La stavano venendo a prendere, sì. Questo era certo.

 

“Ricordo poco di quella notte. Avevo sentito i miei litigare, litigavano sempre. Quella volta, però, mia madre gli giurò che l’indomani se ne sarebbe andata da sua sorella. Lasciandomi qui con lui. Perché anche io ormai ero un peso, disse straziata da quel dolore nelle parole che conoscevo bene. Lo stesso dolore con cui mi chiedeva la mattina cosa volessi per pranzo. Non aveva voluto questa vita, non aveva voluto questa figlia e questa famiglia. Lei voleva il principe dei romanzi che io leggevo. Ogni tanto mi guardava mentre sul terrazzo leggevo le mie storie. Raramente si sedeva accanto a me e lì, mentre il vento le spazzolava indietro i capelli ricci, mi chiedeva se le potevo leggere qualcosa. Io le leggevo le parti più belle. Facendola sognare con quegli occhi neri, puntati verso l’orizzonte. Non era una donna cattiva, ma non amava mio padre e quel suo modo di vivere mediocremente, con le piccole cose. Senza aspirare a niente di meglio, di quello che già si possedeva. Questo modo di vivere la vita la torturava. Non si sedeva spesso accanto a me, ma quando lo faceva ero felice ed è così che voglio ricordarmela.

 

Quella notte ero rimasta sveglia, non riuscivo a dormire. Così mi affacciai al balcone per prendere un po’ d’aria. Era febbraio, c’era freddo. Eppure stavo bene con la mia camicia da notte di flanella. Non tremavo. Mi sentii chiamare dalla strada. Erano dei ragazzini, tre. Incominciarono a chiamarmi per nome, – Rosa…Rosaaa! - gridavano ed io avevo paura che non la smettessero più, così risposi. Mi dissero che volevano giocare con me, che venivano sotto il balcone ogni pomeriggio, per vedermi. Che io ero molto carina e che non era giusto che stavo sempre sola. Mi chiesero di scendere in strada. Era più la voglia di capire cosa mi perdevo, che la voglia di farlo, che mi spinse ad uscire. Mi portarono sulla spiaggia. C’era freddo, l’umidità mi entrava dentro le ossa. Volevo tornare a casa, appena arrivata. Loro, però, si offesero, dissero che non era giusto, che non potevo fare così. Mi convinsero a sedermi, dietro una grande roccia.

 

In un tempo che io non riesco a definire, me li trovai addosso, di lato a tenermi ferma, dentro di me. Non opposi alcuna resistenza, se è questo che vuoi chiedermi, non lo feci. Mentre si vestivano di me, io pensavo al fatto che era questo che si prova quando un uomo ama, possiede, come era scritto nei miei libri. Ed ebbi schifo e paura. Io non so quanto durò, quanto tempo impiegarono per soddisfarsi. Ma quando ebbero finito uno di loro si inchinò con i pantaloni ancora calati e mi sputò in faccia. Mi disse che solo le puttane facevano come me, che solo le puttane del demonio lo facevano. Andarono via, ridendo e facendo rumore per la strada. Quando il sole illuminò delicato la mia pelle, sopra i ciottoli freddi, mi rivestii e andai via. Arrivata alla porta di casa aprì mia madre. Mi guardò e urlando mi chiese cos’era successo. Non le risposi. Entrai in bagno, lasciando la porta aperta. Mio padre, che aveva sempre avuto un pudore mesto, si fermò sulla porta e girandosi di lato, per non guardare mentre mi spogliavo, incominciò a chiedere spiegazioni. Io riempivo la vasca di acqua calda, lui continuava a gridare, mentre mia madre piangeva all’angolo del corridoio. Quando entrai nella vasca, si avvicinò al bordo. Guardò i vestiti a terra, le mutande sporche di sangue e mi chiese, - Chi è stato?- I suoi occhi era accessi di odio, – Il demonio, papà. – Risposi scandendo bene le parole.“

 

Rosa non fu picchiata o sgridata, come forse si augurava facessero. Le cambiarono il medico e la sottoposero a cure farmacologiche sempre più intense. I suoi giorni divennero sempre più confusi e annebbiati e la sua memoria incominciò a vacillare. Solo una cosa si ricordava, chiara, la venuta del demonio nella sua vita, quella notte sulla spiaggia. Continuavano a farle domande e ad interrogarla, ma non rispose più. Decise di non parlare più con loro. Una notte del 1973 Rosa, mentre un’infermiera le somministrava l’ennesima puntura della giornata, con gli occhi vitrei le bisbigliò – Domani io mi ammazzo.- L’infermiera fece finta di non sentirla, ma una volta uscita raccontò tutto allo psichiatra che aveva preso in cura la ragazza.

 

 

Nel 1938 il dott. Cerletti e il dott. Bini praticarono la prima TEC in Italia. La TEC era la terapia elettroconvulsivante che si usava di solito sui pazienti schizofrenici, con manie iperattive, irrazionali e distruttive, su soggetti depressi e tendenti al suicidio. Su quei pazienti dove le cure farmacologiche non avevano avuto il successo sperato. La memoria di quei momenti ritornò a Rosa circa sei mesi dopo, la prima volta che fu sottoposta all’elettroshock. D’un tratto un pomeriggio, mentre beveva il suo tè caldo, nel bicchiere di plastica, seduta in quella sedia da giardino, nel salone comune, le tornarono davanti agli occhi alcuni momenti di quella notte. Questa è una di quelle cose che non sono riuscito a strappare alla sua memoria. Non parla mai di questo, non vuole, in nessun modo. Posso dirvi, però, quello che una volta, mentre scavavamo la fossa per seppellire un gatto morto, Rosa mi disse piangendo. Questo credo che sia il risultato di una voglia di esplodere che non trova la sua soluzione, neanche oggi. Perché ci sono persone che sono pronte a sentire il male ed altre che ne uscirebbero irrimediabilmente vinte. Aveva le mani sporche di terra e gli occhi rossi, aveva vegliato quella creatura tutta la notte, ed io lì con lei. Il veterinario le aveva detto che il gatto, ormai grande, aveva una brutta insufficienza renale. Lei piangeva e chiedeva a quell’uomo se c’era una cura. Ma non ce n’erano, dovette arrendersi all’evidenza che non poteva far nulla, se non stargli accanto in quell’ultimo momento della sua vita. In quella notte, tra un silenzio e l’altro, Rosa mi confidò che quando ti fanno l’elettroshock, non è vero che il tuo cervello smette per qualche secondo di funzionare e non ricordi più niente. Lei si ricordava nettamente delle persone che parlavano attorno a lei, di come riferivano i dati che la riguardavano a voce alta, di come anche il dott. Gigi fosse presente nel fondo buio della stanza. La verità è che probabilmente Rosa abbia sognato tutto questo, dopo, ma la verità è che la verità non la so neanche io.

 

Rosa porta i capelli lunghi, sono ricci e folti, le coprono le tempie. Quando li raccoglie in una coda, e questo succede raramente, nella tempia sinistra vedo una forte bruciatura, come un bollo preciso di cartapesta. Non so quale sia, quale seduta delle trentasei che i suoi referti riportano, quale abbia causato quella ferita profonda. Non so fin dove si sono spinti con lei.

 

Rosa non porta mai i capelli legati, ma quella mattina, mentre seppellivamo quel gatto, li strinse in un elastico rosso e non si curò dei miei occhi curiosi. Poi, adagiando delicata quel corpo freddo e immobile nel fondo della fossa, poggiò le mani sulle ginocchia piegate e respirando disse queste parole. “Quando ti fanno l’elettroshock pensi che la tua vita stia per finire. Ti chiedi dove ti stanno portando, cosa vogliono da te, perché. Poi mentre vai avanti verso la stanza dove ti sottoporranno alla cura, non importa quanto tempo ci vuole, il tuo tempo si annulla e rimane tutto sospeso. Forse è per via dei rilassanti che ti iniettano, però, è così bello rimanere in quel limbo. Tutto ti ritorna alla mente, vecchio eppure colorato di luce nuova. Poi un secondo, il buio. Quando riapri gli occhi senti freddo, tanto freddo e le coperte non bastano. Hai nausea e a volte vomiti. Ti chiedi cosa ti è successo, dove ti hanno portato, cosa ti hanno fatto, perché. Ma non hai risposta e non ne avrai fino alla prossima seduta di terapia, dove crederai di stare per morire di nuovo. Ogni volta che riaprivo gli occhi ero confusa e avevo un forte mal di testa, poi mi giravo nel letto e la vedevo, distesa accanto a me. Faccia al soffitto. La donna pesce era ancora lì con gli occhi sbarrati e zitta. Appena si accorgeva che io ero sveglia, girando quegli occhi, con un’abilità che io non ho mai più rivisto, mi diceva calma,

 

- Ti chiami Rosa, hai vent’anni. Sei all’inferno. Stai tranquilla, però, presto passerà.-“

 

Nel 1977 Rosa fu liberata, portata lontano dall’ospedale di Reggio Emilia e giudicata guarita da un gruppo di psichiatri dell’ASL. Aveva finalmente smesso di nominare il demonio e aveva dimenticato le sue tendenze suicide. Nella realtà dei fatti aveva smesso di parlare, aveva smesso di lottare per le sue verità. Non aveva ancora visto abbastanza, eppure non volle più parlare. Fu portata prima in una struttura ospedaliera di supporto a Torino, dove rimase per circa un anno e poi in una casa famiglia vicino Torino. Dove ebbe altre due gravidanze, che però non furono portate a compimento. Nel 1984 interruppe la sua ultima gravidanza. Soltanto allora ebbe il coraggio di ritornare da sua madre, qualche settimana dopo. Il padre era morto nel ’81, ma questo lei lo seppe solo qualche mese prima di fare quel viaggio in Sicilia. La madre era spaesata e sola, a causa della demenza senile, la sorella l’aveva fatta ricoverare in una casa di riposo. La madre di Rosa non riusciva neanche più a pulirsi, le disse quel giorno in macchina sua zia. Entrata nella casa di cura, la madre la riconobbe a stento, e a stento Rosa riconobbe lei. Le stava seduta davanti, in giardino, con un bel cappello di paglia rosa ed una carnagione di porcellana. Ma aveva perso quegli occhi neri sognatori e quella forza che le esplodeva fuori dal quel corpo energico, di cui rimanevano solo i grossi polpacci, ormai flaccidi. Rosa le strinse la mano e guardandola negli occhi, ferma, pensò al fatto che a sua madre era andata meglio, tutto sommato.

 

 

“Il giorno del mio aborto lo ricordo bene. Avevo diciannove anni e pensavo di crescere nel mio grembo il figlio di Satana. Il prete dal quale mi aveva fatto vedere mia madre, prima di portarmi dal medico, era una specie di santo guaritore. Almeno questa era la voce che si era sparsa in paese, non appena era venuto lui, al posto del troppo vecchio padre Nino. Fu lui che diede a mia madre il nome del ginecologo che praticava gli aborti clandestini a Palermo. L’interruzione della mia gravidanza, disse senza alcun tremore nella sua voce, era un’azione benedetta da Dio stesso. Furono tutti molto gentili, la segretaria, l’assistente del dottore, il dottore stesso. Mi trattarono bene, mi fecero così tante carinerie che me ne andai quasi sollevata. Perché loro, pensai, mi avevano aiutato sul serio. Loro sì che erano dei bravi medici.

 

Oggi quando ripenso al mio primo aborto, a quel giorno di quel lontano 1972, mi dico che è stato allora che è finito tutto. Dopo la violenza di quei ragazzi, dopo la violenza dei miei genitori. La vera fine è stata quella violenza che mi ha spinto a uccidere parte di me. E’ lì, che il demonio mi è venuto a trovare.”

 

Degli altri aborti Rosa non parla, perché li considera tutti una conseguenza di quel male che lei stessa ha voluto infliggersi, per quella colpa iniziale. Darle il dono di essere madre per delle creature che un giorno, di sicuro, avrebbero odiato questa povera donna, non era pensabile, lei ne era convinta. Questo suo continuo avvilirsi e questo suo continuo chiedermi una mano per rialzarsi è quello che me la rende più amabile, più imperfettamente umana, più simile a me. In un libro una volta lessi che l’uomo, debole, ma con il prepotente bisogno di vincere, si serve delle donne, fragili, le fa diventare vittime, per poter conservare il sentimento di sé. Lo lessi anche a Rosa un pomeriggio che il pensiero di lei, violentata, mi opprimeva come non mai. Lei mi sorrise, ma non rispose.

 

Solo qualche giorno fa in macchina, mentre scendevamo verso la Sicilia, mi ha risposto. E’ passato quasi un anno. Nel silenzio ha detto – Credo sia quello che è successo quel giorno, a poche ore dall’alba. Credo sia successo proprio quello. – Abbiamo il nostro modo di comunicare, so che era una risposta, so quello che voleva dirmi, proprio quello che io ho compreso. E so che non me lo ripeterà mai più.

 

 

Abbiamo preso il traghetto per Messina e tra poche ore saremo a Carini. Questo viaggio ce lo siamo ripromessi da tempo e dato che è luglio e che le mie ferie si sono stranamente allungate di una settimana, ci siamo presi questi giorni per un viaggio in macchina, durante i quali ho redatto le ultime pagine di questa storia. Lo so che dovrebbe essere più lungo, dovrebbe contenere più eventi, fatti, ma ho fatto tesoro di una frase che Rosa mi ripete sempre, - Spiegami perché allungare il brodo se una cosa si può dire in tre righe. - E lei di libri se ne intende. Quando è venuta a stare da me, tre anni fa, ha ricominciato a leggere e di nascosto, a volte, la vedo scrivere. Cura il mio giardino e la mia casa, insieme a me. Ha popolato la nostra dimora di gatti, ma devo dire che è stata una splendida idea. Le do quello che avrebbero dovuto dargli, o almeno ci provo. Le do una famiglia, o almeno ci provo. Nel 2008 è venuta a casa mia. Un giorno che pioveva moltissimo. E’ entrata insieme alla psicologa dell’ASL. Mi ha guardato in faccia per un nanosecondo e poi ha riabbassato lo sguardo. Siamo stati in silenzio, per circa due settimane, poi l’arrivo di Odisseo, un gattino rosso, durante un temporale, ci ha unito e da allora è stato tutto più semplice. Rosa è molto colta e penso che se fosse vissuta in un tempo diverso e in un luogo diverso le cose non sarebbero andate così, ma questo a lei non lo dico. Non è importante ormai.

 

Rosa siede su una panchina, schizzi di mare le arrivano in faccia, i suoi cinquant’otto anni sembrano scivolarle addosso come l’acqua salata. E’ rimasta snella e aggraziata nei movimenti. I suoi capelli crespi e ricci, indomabili dice lei. I suoi occhi non sono più verdi e non sono più così grandi, dietro quegli occhiali da vista che le ho dovuto fare mettere a forza. Le mani le tremano moltissimo e la bocca a volte le si storce in una smorfia sulla destra. Un riflesso incondizionato. E’ una donna che ha sofferto e a volte mi chiedo se dopotutto, lei che non lo chiede mai, abbia voglia di sentire la mia storia. Se per lei ricordare la propria di vita non sia già abbastanza. Scendiamo con la macchina dal traghetto ed imbocchiamo l’autostrada per Palermo. Il sole sta per tramontare e la macchina si colora di quel rosso fuoco che solo in Sicilia, dice Rosa, è rosso così. Lei canta le canzoni che la radio passa ed io continuo a dirle che è stonata. Lei ride.

 

 

Arriviamo verso sera a Carini, alloggiamo in un albergo, nella sua casa vivono ora i suoi cugini, ma nessuno sa che siamo lì. Rosa vuole così. Mentre camminiamo per il piccolo lungo mare del paese, tra la gente che passeggia rumorosa, lei si blocca e si siede su un muretto di cemento. Guarda il mare nero e la spiaggia per tre quarti illuminata dai lampioni della strada. La luna piena stasera è un gigante, come un riflettore sul mare calmo osserva silenziosa, come ha sempre fatto. Mi siedo accanto a lei, non so cosa dire. Fin quando si gira con il sorriso sulle labbra, mi poggia la mano sinistra sulla mia. Al polso ha i suoi braccialetti colorati, che non dimentica mai di mettere, poi lentamente dice,

 

– Allora Pietro, mi vuoi raccontare la tua storia. Sono stanca di parlare, non l’ho fatto per anni, non ci sono più abituata.-

M.D.Q.

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