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MARE D'INVERNO

Il vento ci benedisse un pomeriggio verso le quattro. Un vento pungente e penetrante, di quelli che vengono dal nord. Stavamo passeggiando lungo la riva e la sabbia si infilava tra le dita dei piedi. Quando il vento ci raggiunse da dietro e ci avvolse, io gli stavo dicendo che sapevo che sarebbe morto, ma non credevo che sarebbe stato così veloce. I nostri capelli iniziarono a volare sopra le teste, impazziti. I vestiti si allungavano come se volessero scappare per conto loro. Prima iniziammo a correre per ripararci. Mi sforzavo di stargli dietro, lui andava piano, aveva sospeso la cura da qualche settimana. Abbandonare la terapia era una cosa che non aveva detto a nessuno, ma io dovevo sapere.

 

- Perché me l’hai detto?-

 

-Perché gli amici servono anche a farti soffrire.-

 

Poi si fermò, mentre io lo superavo di qualche passo. Mi accorsi che non era più accanto a me e mi girai. Mi guardava fermo in mezzo al vento. Il vento sembrava strapparlo via dal suo corpo. Iniziò a ridere come un bambino, rideva e girava su se stesso; poi iniziò a correre avanti e indietro. Io lo guardavo seria, ero convinta di avere davanti un uomo sull’orlo dell’esaurimento. Aveva trentasei anni e sembrava un bambino, che la vita ancora non la conosce davvero. Mi chiese di avvicinarmi, ma io non lo feci. Avevo paura, paura che poi mi sarebbe toccato afferrarlo prima della caduta, perché sarebbe caduto. Avevo paura che avrei dovuto consolarlo con parole e con lacrime che non avevo più. Ero stanca di tutto quello. Lui era euforico, il vento lo faceva saltare e sembrava volasse sopra la sabbia. Il cielo si oscurò velocemente.

 

Mi venne vicino e si bloccò ad un centimetro da me.

 

-Michè, vieni? Dai!!-

 

Feci di no con la testa,

 

-Sei diventato pazzo?-

 

-Fammi felice?-

 

-Non è che siccome stai morendo devo sempre farti felice!-

 

-Allora, fai felice te!-

 

Controvoglia allungai le braccia verso di lui, le afferrò e mi portò via con sé. Volteggiavamo con quel vento forte che ci invadeva e ci sorreggeva insieme, non mi era chiaro più niente. La pietra che avevo in fondo allo stomaco diventava leggera abbastanza da essere sollevata dal vento. La pelle diventava ruvida, ma chissà perché non arrivavo mai a dire “ho freddo!”

 

I contorni non erano chiari in quel pomeriggio di novembre. Mi sentivo leggera d’un tratto, dopo aver passato i mesi più duri della mia vita. Lui sorrideva e sembrava esaltato da quel vento che si infilava sotto i nostri vestiti, entrava dentro di noi e con la stessa velocità ci abbandonava, per riprenderci ancora. Giravamo veloci e ridevamo come due pazzi, un gioco che non fanno neanche più i bambini, pensai. Ci spingemmo sempre più verso il mare, giravamo così veloce che alla fine successe: cademmo.

 

Arrivammo col sedere nell’acqua. Affannati e sorridenti, continuavamo a guardarci sperando che quel vento non andasse più via.

 

-Ha ragione la Bertè..-

 

-Come?-

 

-La Bertè ha ragione, il mare d’inverno, la sai no...-

 

Lo guardai con la solita faccia disgustata di quando diceva qualcosa del genere. La solita faccia di quando in un momento che le parole non sarebbero bastate lui se ne usciva con qualche canzone o qualche frase da film. Niente lo allontanava da sé più della voglia di vivere in quella canzone o in quel film visto all’una di notte al televisore della sua camera con i pop-corn che scoppiettano in padella nella cucina.

 

-Sai..come fa?-

 

-Me l’avrai fatta ascoltare un milione di volte, certo che la so!

 

-Allora ricordamela…il mare d’inverno…è un concetto poco moderno…e poi…-

 

-Ho freddo, Ste’!-

 

-Sì, anch’io. Cinque minuti e andiamo.-

 

D’istinto ci avvicinammo, rimanendo a mollo nell’acqua salata. Vinti da quel vento che ci seccava la pelle e violentava i polmoni. Appoggiai la testa sulla sua spalla scomoda.

 

-Devi giurarmi che ricomincerai a piangere, dopo che muoio. A piangere e a ridere, come prima.-

 

-Cazzo Ste’, questa sembra una frase alla Dawson Creek !-

 

Ridemmo.

 

-Come fai a essere così cinica, io non lo so.-

 

Io non credevo che sarei sopravvissuta a quel giorno. Me l’ero immaginata mille volte e per mille volte avevo concluso che non ci sarei stata più neanche io. Come se in quel momento in cui lui spariva anche io avrei fatto puff, come fanno i maghi con il loro cilindro, come fa il vento.

 

Fischiava il vento alle nostre orecchie e ad un tratto non sapevo più se ero davvero lì. Mi guardai le mani, diventavano molli e rugose, da quanto tempo eravamo lì? Mentre le guardavo lui mi sussurrò in un orecchio:

 

-Sembriamo due vecchi che si amano.-

 

Lo guardai.

 

-E’ un concetto che il pensiero non considera…è poco moderno…-

 

-Ah, sì ecco…è qualcosa che nessuno mai desidera ..-

 

Annuii.

 

Nell’imperfezione del suo volto, nelle guance scavate dal veleno dei farmaci, nelle occhiaie profonde, nei capelli sempre più radi, nelle croste rosse che gli invadevano la pelle, nelle ossa che diventavano corpo, nelle mani che tremavano senza sosta, nei piedi sempre gonfi e viola, nei denti secchi come radici di una pianta ormai estinta... in quella malattia che si chiama AIDS, io riconoscevo ancora quell’uomo che una sera di undici anni prima si era avvicinato a mio padre e a me. Una sera che avevo vinto un torneo con la mia squadra di pallavolo. Lui era venuto per farmi i complimenti, un ricercatore di talenti. Ricercava talenti e aveva trovato me, che avrei smesso di giocare qualche mese dopo. In quel giorno che c’era vento e io avevo freddo per colpa dei pantaloncini inguinali, mi venne incontro con una proposta. Senza preavviso, quel giorno, ci aveva segnati tutti. Per sempre.

Uniti per lasciarci solo alla fine, solo quando non ci sarebbe potuto essere nient’altro da prendersi. O da dare.

 

Il sole piano ricolorava le cose e il vento spariva dietro le nostre teste, senza salutare. D'altronde il vento poteva permettersi ogni sorta di scortesia.

 

-Stefano?-

 

-Sì?-

 

-Credo che tu e la Bertè abbiate ragione…-

 

-Che vuoi dire?-

 

-… Questo vento agita anche me…-

 

- Questo vento agita anche me…!-

M.D.Q.

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