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LA SIGNORA TAMARA

 

 

La signora Tamara aveva quarant’anni quando, per la seconda volta, entrai a casa sua.

 

Era una donna bella, bella come le sante martiri. I suoi capelli erano chiari e i suoi occhi del colore delle castagne affumicate. Aveva i denti bianchissimi e le dita lunghe. Portava gonne larghe e colorate, scialli fatti a mano; si vestiva come le donne della sua terra, diceva: Lisbona. Metteva un fazzoletto sulla testa a coprirle i capelli lisci e lunghi. Sul petto portava un grosso crocifisso di legno e sul viso pallido i segni della debolezza. Abitava proprio al centro di Casteddu, di fronte a casa nostra. Ogni pomeriggio metteva un disco nel giradischi, questo era stato l’ultimo regalo del marito prima di ripartire per la Germania. Ogni volta che la musica della signora Tamara scorreva come fiume per Casteddu tutto diveniva inconsistente. Come un sogno che fai la mattina presto, quando già il primo sole è alto e senti in lontananza le voci della realtà. La signora Tamara viveva sola tra quelle mura e pochi erano entrati in quella casa: io ero tra quei pochi.

 

La prima volta che entrai a casa sua era un giorno che stavo giocando con Marco, sotto il suo balcone. La musica invadeva la piazza e noi avevamo iniziato a ballare senza un motivo, come non avevamo mai fatto. Lei ci vide dal balcone e ci chiamò.

 

 

-Fo’ Titì, Marcuzzo, acchianate!-

 

 

Ci guardammo negli occhi un istante, poi con uno scatto corremmo verso le scale che davano alla porta d’ingresso, spintonandoci per arrivare primi. Entrare in quella casa era una cosa che potevamo raccontare, qualcosa che pochi conoscevano e che ci avrebbe fatto vantare con gli altri. Fummo accolti in una stanzetta: un salotto con un divano e due poltrone di vimini. C’erano dei quadri alle pareti, tutti raffiguravano Lisbona. Il mare di Lisbona, le case di Lisbona, le Chiese di Lisbona.

 

C’era una fotografia in un portafotografie d’argento sul tavolino: era una foto in bianco e nero del giorno del suo matrimonio. Lei era giovane e Pietro, suo marito, era alto e bellissimo. Si erano sposati a Lisbona ventitre anni prima. Il loro fu un matrimonio d’amore, dicevano in paese, e guardando quella foto mi resi conto che non poteva essere che così. Si guardavano e ridevano tra le siepi di chissà quale giardino di Lisbona, lei aveva in mano un fiore d’ibiscus e lui le cingeva i fianchi.

 

Un giorno Pietro le aveva chiesto di tornare in Sicilia, che finalmente il lavoro c’era e lei acconsentì. Il lavoro, però, durò poco e Pietro dovette ripartire. Faceva avanti e indietro dalla Germania, tornava a Casteddu una volta ogni due mesi, andò così per tre anni. Tamara non rimaneva mai incinta e quindi restava sempre sola a casa ad aspettarlo. Una sera di luglio Pietro partì dalla stazione di Casteddu e non tornò più. Mandarono il fratello a cercarlo dopo qualche mese, ma quando il fratello fece ritorno racconto che Pietro si era fatto una nuova famiglia, una moglie e un figlio appena nato. Pietro non aveva intenzione di tornare a Casteddu, di tornare da Tamara. La famiglia di Pietro aiutò Tamara a trovare un lavoro, divenne la donna di servizio di alcune famiglie bene di Casteddu. E aiutava anche il parroco del paese: Don Lino.

 

Lui le portava la biancheria da lavare e lei andava a casa sua per le pulizie. Una volta a settimana vedevi passare don Lino sotto il portico vicino casa di Tamara. Lento e goffo saliva le scale, facendo frusciare il suo ampio mantello sulla pietra. Poi, una volta entrato in casa, scompariva per almeno due ore. Tutti in paese parlavano di quelle due ore.

 

Tamara ci fece sedere sul divano di vimini, andò al giradischi e posizionò la puntina, qualche secondo dopo partì la musica.

 

-Allora, vi piace la mia musica? La ballavate…-

 

Marco mi guardava, lui non avrebbe aperto bocca, si stava imbarazzando troppo di essere seduto lì.

 

-Sì. E’ molto bella e…commovente.-

 

Sorrise e si sedette sulla poltrona accanto al divano. La poltrona scricchiolò un po’, poi tornò nella stanza solo il silenzio della musica.

 

-Sai, Titì, questa musica me la manda mia sorella ogni mese; appena esce un trentatré giri nuovo, lei me lo invia. Hai ragione è una musica commovente…Mi manca così tanto… -

 

-Perché non va a trovarla?-

 

Lei mi guardò seria, quasi delusa da quella domanda.

 

-Perché ormai appartengo a Casteddu.-

 

Rimanemmo per qualche minuto così senza far nulla. Marco guardava le ombre degli oggetti sul muro e io i quadri di Lisbona appesi ovunque.

 

-Sembra una bella città…-

 

-Lo è… lo è! Andarmene, per fare cosa? Io non ho studiato, non ho marito, i miei genitori sono morti..sono morti. Arriverei lì e dovrei ricominciare da capo, ma questa volta da sola. Da sola senza nessuno…da sola…-

 

-C’è sua sorella, no?-

 

-Mia sorella? Mia sorella ha una famiglia: tre figli e un marito. Fa anche la maestra, come potrebbe aiutarmi. Già fa tanto da lontano, fa tanto. Lei me l’aveva detto, ma io non l’ho mai ascoltata, non ho ascoltato mai nessuno, io.-

 

Si girò a guardare fuori dalla finestra. Marco iniziava ad annoiarsi. Aveva l’aria indifferente, si guardava la punta dei piedi e ogni tanto tossiva. Si capiva che lo faceva per finta. Lo capì anche la signora Tamara.

 

-Volete qualcosa da bere?-

 

-Sì-

 

-No-

 

Ci guardammo. Il ‘no’ di Marco voleva dire “Titì amuninni!”

 

- No. Grazie signora. Noi dobbiamo andare via.-

 

Ci alzammo contemporaneamente tutti e tre, come se qualcuno ci avesse obbligati all’attenti. Poi lei ci fece strada verso la porta d’ingresso.

 

-Quando vuoi venire a trovarmi, Titì, sei la benvenuta!-

 

 

 

-Grazie.-

 

Sorrisi calando la testa e riscesi lenta gli scalini. Mi girai ancora una volta: lei era sulla porta a guardarci. La salutai con la mano, ricambiò, poi entrò in casa. Alzò il volume della musica e io sapevo che lo stava facendo per me.

 

Un motivo per tornare a casa sua non ce l’avevo, ma il 13 marzo, a distanza di quasi un anno dalla prima volta che ero stata lì, decisi che era il momento giusto per farle visita. Mancavano sei giorni alla Festa di San Giuseppe, avrei fatto Maria quell’anno nella processione. Decisi di andare da lei perché da due giorni non sentivo la musica il pomeriggio. Nessuno sembrava averci fatto caso, tranne io. Avevamo pranzato da poco. Presi il mio diario, la borsetta di juta e andai fuori. Attraversai la stradina deserta e assolata e salii piano le scale per arrivare all’ingresso. Tre colpi alla porta, ci fu un rumore sordo di qualcosa che cade, e la voce gentile di Tamara che chiese di aspettare un attimo.

 

- Titì, che ci fai qui?-

 

-Salve, signora. Mi riciste ca’ potia acchianari quannu vulia…-

 

Rimase qualche istante a guardarmi con i suoi occhi scuri, poi osservò intorno, la strada.

 

-Ma se vuole posso tornare un’altra volta.-

 

Feci per girarmi, ma lei mi bloccò, afferrandomi un polso.

 

-No, Titì, trasi…-

 

La casa non era così luminosa come me la ricordavo. Le serrande erano calate, ma a quell’ora lo facevamo tutti per via della calura. Tamara mi fece strada fino al piccolo salotto in vimini. Qui lo vidi quasi subito, si confondeva con l’ombra della stanza, ma era lui. Mi fermai di colpo, dritta come se avessi inghiottito una scopa prima di entrare.

 

- Titì. Che sorpresa!-

 

Don Lino era seduto in un angolo del divano, si sventolava con una cartolina, di cui non vedevo l’immagine. Sudava e goccioline gli calavano dalle tempie.

 

-Don Lino…-

 

-Che fa, ti bloccasti? Accomodati! Tamara ora ci porta una coca cola ghiacciata. La vuoi?-

 

Feci un cenno di sì verso la donna che mi stava accanto. Tamara uscì svelta dalla stanza, poi io andai a sedermi sul divano, al lato opposto di don Lino.

 

-A cosa deve la visita la signora Tamara?-

 

Non sapevo cosa dire, se non la verità.

 

-Volevo sapere solo se stava bene. E’ due giorni che non ci fu musica e quindi mi preoccupai.-

 

Il prete mi guardò con sorpresa. Socchiuse le labbra e per un attimo gli vidi brillare gli occhi.

 

-Ti sei preoccupata?-

 

-Un po’..-

 

-E’ tua madre che ti ha detto di venire a vedere come stava?-

 

-No, lei non lo sa che acchianai.-

 

Nel frattempo Tamara ritornava lenta nella stanza con due bicchieroni colmi di coca cola. Li poggiò sul tavolino, accanto alla foto del matrimonio in bianco e nero, e si sedette sulla poltrona.

 

-Dille perché sei venuta, Titì. -

 

-Be’, sono venuta, perché ieri non ho sentito la sua musica e mi ero preoccupata.-

 

La donna portò una mano al petto, come per contenere il proprio respiro.

 

- Oh, Titì… -

 

Poi abbassò gli occhi a terra.

 

-Infatti, è vero. Non l’ho messa, avia troppu chi fari..-

 

Lo disse guardando con devozione il prete. Mi venne spontaneo alzare gli occhi al soffitto, come per allontanarmi da loro due; mentre lo facevo mi accorsi che sulle pareti non c’erano più i quadri di Lisbona.

 

-Che fa non bevi, Titì?-

 

-Sì, don Lino… -

 

Presi il bicchiere con due mani e iniziai a sorseggiare la coca. Mi guardavo in giro: tutti i quadri erano scomparsi dalle pareti, rimanevano gli aloni più chiari, perfettamente geometrici.

 

Tamara con un filo di voce mi disse:

 

-Vado via, torno a Lisbona.-

 

Ero andata da lei con la speranza che mi dicesse quella cosa, in fondo lo sapevo che quel silenzio poteva voler dire poche cose diverse da quella. Ora che me lo diceva, però, una sensazione di vuoto mi prese lo stomaco. Questa sensazione mi fece tremare la mano che reggeva il bicchiere e la coca cola oscillò pericolosamente.

 

- Co… come mai?-

 

-Mia sorella è morta. -

 

Posai il bicchiere sul tavolino e misi le mani sulle ginocchia nude. Le mie mani stavano sudando.

 

-Mi dispiace, signora…-

 

Tamara aveva chiuso le mani in preghiera e gli occhi fissi al pavimento erano lucidi.

 

- La signora Tamara partirà stanotte col treno delle undici. Poi arriverà a Catania dove prenderà l’aereo. Sarà a Lisbona domani mattina prima dell’alba. -

 

-Stanotte?-

 

-Sì. Sono venuto qui per salutarla e per aiutarla con le ultime cose. -

 

C’erano degli scatoloni in un angolo, non avevo fatto caso prima di sedermi al resto della casa, a quegli scatoloni.

 

-Non tornerà più a Casteddu?-

 

-Non credo. Ora devo occuparmi dei miei nipoti e aiutare mio cognato, aiutare un po’ tutti, sarà dura. Sarà dura..-

 

Non era così triste mentre mi parlava. Non era come dovrebbe essere una donna che ha perso sua sorella, l’ultimo pezzo della sua famiglia, credo. Sembrava quasi sollevata. Nei suoi occhi, seppur rossi e gonfi, intravedevo qualcosa che assomigliava proprio alla felicità.

 

-E qui non ho più nessuno, nessuno.-

 

Quest’ultima frase la disse guardando don Lino. Lui aveva smesso di sventolarsi e aveva poggiato la cartolina sul tavolo: era Lisbona la città raffigurata. Si guardarono qualche istante l’uno negli occhi dell’altro.

 

-Si perderà la Festa di San Giuseppe, quindi?-

 

-Sì, mi spiace Titì. Ma tu sarai una bravissima Maria. -

 

-Già e adesso è anche premurosa. Stai diventando una personcina a modo, Titì!-

 

Guardai un secondo don Lino, lui mi sorrise, riabbassai lo sguardo.

 

-Ma chi metterà la musica ora?-

 

Lo dissi sottovoce, ma Tamara mi sentì.

 

-Nessuno, ma se vuoi ti lascerò i miei dischi, li lascerò a don Lino che te li farà trovare domani… vuoi?-

 

Don Lino si drizzò sul divano, Tamara come per giustificarsi aggiunse:

 

-Questi dischi sono stati la cosa più preziosa qui a Casteddu, ma ora non mi servono più. Titì vuoi che metta per te un ultimo disco, vuoi?-

 

-Sì. -

 

-Metterò una canzone che io amo molto, si chiama Casa Minha… sai cosa vuol dire?-

 

Feci di no con la testa. Don Lino si alzò e andò verso la finestra. La signora Tamara, prese il disco da uno scatolone, lo mise sotto la puntina e lo fece partire. Poi prese una sigaretta dal pacchetto che stava sul tavolino e andò verso la finestra anche lei. Alzò la serranda e la luce entrò prepotente nella stanza nello stesso attimo in cui partì la musica.

 

-Vuol dire casa mia…-

 

Si accese la sigaretta. Aspirava a fondo, come per tirare subito via la nicotina e avvelenare i polmoni. Sfiorava con la spalla quella di don Lino. Lui aveva le mani dietro la schiena e con un piede iniziò piano a battere il ritmo sul pavimento. Io rimanevo seduta a guardarli. Tamara si avvicinò ancora di più a don Lino. Lui la guardò serio, poi si allontanò di qualche centimetro. In quel piccolissimo spazio tra i due scivolò la luce del sole delle tre del pomeriggio e mi raggiunse.

 

Io ero quello spazio.

 

Di quei dischi non seppi più nulla. Ma alle tre del pomeriggio di tutti gli anni della mia infanzia quella musica continuò a riecheggiare per i vicoli di Casteddu. E ogni volta che la si sentiva, alle tre esatte, tutti pensavamo alla signora Tamara e ogni cosa diveniva inconsistente. Come un sogno che fai la mattina presto, quando già il primo sole è alto e senti in lontananza le voci della realtà. Come l’acqua che ti circonda, quando affondi, quando ogni rumore è ovattato e vedi le cose senza contorni. Come l’ultimo ballo che si concede prima che il locale chiuda e la musica si spenga.

M.D.Q.

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