LA GRANDE MADRE
Camminava nel silenzio del suo affanno. L’aria fredda del mattino sulla sua pelle era fastidiosa, ma lei non se ne curava, non poteva. Indossava solo una sottile veste da notte bianca. Alta e snella, camminava zoppicando, trascinava il piede destro a fatica. Era scalza. Sentiva l’asfalto freddo e ruvido sotto di lei. Piano percorse via Po’. Arrivata in piazza Vittorio, incominciò ad attraversarla senza essere vista. La gente era poca, e lei pareva un sogno nella nebbia fredda di un mattino di Novembre. Arrivata all’altezza del ponte, davanti alla Grande Madre si accasciò a terra esausta. La Chiesa ancora illuminata la fissava maestosa e muta. Lei piangeva piegata da quella consapevolezza, la certezza che ogni sua speranza fosse perduta per sempre. Le sue mani si sporcavano toccando la strada e la sua veste si macchiava di nero. Umido e gelo salivano lungo le sue ossa fino al cervello. Tremava. Alzava lo sguardo alla grande cupola blu e ricadeva giù nel pianto più disperato, vinta da quel male che era sempre rimasto in lei. Poi la paura, si guardò intorno,si alzò e continuò a camminare lungo il ponte. Il Po’ era silenzioso come lei. La debole luce del mattino colorava l’acqua di uno strano viola, un viola livido che avrebbe sconvolto chiunque. Erano le sei del mattino, i locali dei Murazzi stavano chiudendo. La notte finiva per lasciare spazio al mattino. Quel giorno il sole si sarebbe visto. Lei lo sapeva bene, conosceva Torino da quando vi era giunta molti anni prima. Per lei era sempre stata un’emozione incredibile vedere quella leggera luce del giorno piano scivolare lungo i palazzi vecchi e grigi. Quelle viuzze che si snodano a milioni dalle vie principali che d’un tratto incominciano a ripopolarsi. Vedere le persone svegliarsi dal letargo della notte. Torino piano la rendeva di nuovo viva, perché finalmente lì era serena. Poi in un attimo, tutto finito. Lei si sentiva morire, forse lo era già. Come accorgersene, un’atmosfera inconsistente, fragile come sono i respiri della notte, labile e ingannevole. Non un passo aveva la stessa ragione di prima, nessuna sensazione era più forte di quel dolore che le lacerava l’anima, la vista. Guardò la sua Torino svegliarsi ancora una volta. Respirava lenta, al di là del parapetto del ponte, rannicchiata in un angolo, per non essere vista. Avrebbe guardato quel panorama fino alla fine del tempo. Questa città l’aveva spinta ad amarla e a vivere in lei, in quegli anni così difficili. Torino, madre protettiva e affettuosa. Era scappata da quella violenza che l’aveva macchiata dentro. Carcerata nella sua casa, vittima di chi le aveva dato la vita. Fuggì. Veloce su quel treno e poi su un altro, lontano da quella vita che era morte. Ma ora era tornata da lei così forte, prepotente, come un boomerang, colpita alla fronte. Annientata. La Grande Madre la fissava, la sua piccola bimba. Proprio come da bambina, si nascondeva, si infilava sotto il letto, pregando di non essere ritrovata mai più. Pregava ancora. D’un tratto si alzò. Molti la videro, c’è chi urlò, chi in silenzio restava a guardare curioso ,chi chiamò la volante della polizia che era in piazza, chi scattava foto col cellulare. Si lasciò cadere, così, ma non aveva il volto turbato. Non ricordo l’avesse. Scomparve nell’acqua. Tutti rimasero lì. Tranne un uomo, chiuso nel suo giaccone di pelle nera. Dopo aver visto quell’angelo cadere giù, si allontanò in fretta, a testa bassa. Due lacrime scesero dai suoi occhi, seccandosi all’altezza degli zigomi.
Ero io.
M.D.Q.