
GRANCHI, 1996
Trovai la mia ragione di vita una sera di inizio settembre del millenovecentonovantasei, sulla riva della spiaggia di Ispica, una lingua di terra divorata dal mare salato, di nome Punta Cirica.
Litorale dove alloggiavo con la mia famiglia durante le vacanze estive e che considerai, fin da subito, la costa più contraddittoria che la natura avesse mai creato.
Un insieme di massi e sabbia dorata, sparsi a caso, con grotte comunicanti e fessure di vegetazione rigogliosa.
Avrei passato delle giornate intere a catturare granchi con mio fratello, bruciati da un sole senza pietà.
Pietro preparava con le sue piccole mani le lenze con molliche di pane o erba ed io, paziente, calavo nell’acqua la nostra trappola. Aspettavamo che un granchio uscisse allo scoperto e Pietro, con l’agilità che l’ha sempre contraddistinto, lo avrebbe intrappolato dentro il secchiello giallo, che la nonna ci aveva regalato prima di partire.
Pietro era un bambino sveglio, lo portavo ad esplorare con me quelle grotte. Io ero il capitano della nave pirata, appena approdata a Punta Cirica, e Pietro l’uomo migliore della mia truppa.
Stavamo a casa del fratello di papà, zio Tano, dalla fine di agosto alla seconda settimana di settembre. Ogni anno.
I miei genitori preferivano farci fare l’estate più calda in città, a Palermo, e poi, solo quando la gente si era scordata di Ispica, così dicevano loro, e dell’estate, aggiungevo io, era il momento delle ferie.
A Pietro e a me non dispiaceva arrivare quando quel posto era ormai deserto, era un’occasione in più per giocare ai pirati, pescare granchi e dimostrare il nostro coraggio nell’arrampicarci sui massi che sbucavano dal mare, senza inutili turisti fra i piedi.
Niente era così perfetto come gli ultimi scampoli d’estate. La mamma che alle otto della sera iniziava a gridare il mio nome. Il sole che calava lento e rosso sotto al mare di cristallo. Le rocce bianche che sprigionavano il calore assorbito durante la giornata. E i granchi, che a centinaia uscivano con la sera e abitavano gli scogli ricoperti di muschio.
Il quattro settembre andammo sulla spiaggia che non erano neanche le nove del mattino. Papà piantò l’ombrellone e ci disse che non dovevamo allontanarci, cosa che diceva tutti i giorni. Lui si levò la camicia bianca, si sdraiò sulla sedia pieghevole e iniziò a spalmare la crema solare sulla pancia e sulla testa, le parti più rotonde del suo corpo.
Mamma era rimasta a casa, che stava cucinando con la zia Mela il ragù e se ti concentravi bene l’odore lo sentivi fino in spiaggia.
Quando ho trovato il bracciale di conchiglie di Pietro, quello che gli avevo fatto io, erano le undici e trenta precise.
Il sole era alto ed io avevo detto di dividerci per scovare il rifugio dei nemici, chi per primo avesse trovato qualcosa avrebbe dovuto chiamare l’altro. Mio padre friggeva al sole settembrino tra una parola crociata ed una Marlboro rossa.
Quel braccialetto era stato il mio regalo per il suo settimo compleanno, un’idea di zia Mela, avevamo festeggiato in spiaggia coi panini imbottiti e le birre, e zio Tano ne aveva fatto provare un sorso anche a Pietro e a me. Ci aveva detto che eravamo grandi e che ora dovevamo bere pure noi. Io non sapevo che regalare a Pietro, eravamo arrivati ad Ispica due giorni prima del compleanno, ma la zia mi disse che aveva raccolto un sacco di conchiglie durante l’estate e che potevamo fare un braccialetto con la lenza per pescare.
Pietro mi abbracciò così forte, quando gli diedi il bracciale al falò in spiaggia. Mi disse che non l’avrebbe più levato e che, se anche ogni tanto litigavamo, io ero la sorella più brava del mondo.
Il braccialetto sbatté contro la mia caviglia alle undici e trenta precise. All’inizio non capii subito che si trattava del bracciale di conchiglie. Mi chinai e lo raccolsi e più nella mia testa si formava la consapevolezza che era proprio la stessa lenza con le stesse conchiglie, più mi allontanai da quello che stavo vivendo.
Poi gridai “Papà!”
Gridai più forte di ogni mio respiro fino a quel momento. Gridai con la paura dell’evidenza, che rende tutto ovattato, come dentro una bolla. Iniziai a vedere il mondo che mi circondava come da sotto la superficie dell’acqua. La forma rotonda di mio padre, che portava le mani alla testa e con un filo di voce diceva il nome dell’uomo che più avrebbe amato nella sua vita, suo figlio. Le grida di una turista francese con il suo cagnolino bianco in braccio, che piangendo ripeteva “mon die..”. La mamma e zia Mela che, con addosso i grembiuli sporchi di sugo, correvano lungo la roccia, facendo volare gli zoccoli di legno.
Ed io sottacqua, chiusa in un involucro impenetrabile, con il braccialetto di conchiglie in mano. Osservavo muta ciò che accadeva, convinta che là sotto nulla mi potesse toccare.
Trovai la mia unica ragione di vita in quella spiaggia a Punta Cirica, mentre la morte avvolgeva la mia famiglia, imbiancava in un attimo i capelli di zia Mela, dipingeva di nero gli occhi di mia madre e spingeva mio padre sul bordo estremo dell’esistenza.
Quel limbo di inesattezza che avvolge tutti i padri, che hanno avuto la triste conferma di aver sbagliato senza rimedio, di non aver posto attenzione alla vita di coloro che hanno generato. Quella linea di sofferenza che una volta oltrepassata ti cambia e ti annienta, pur tenendoti in vita.
Io ero lì, sospesa sotto l’acqua, sentivo lontane tutte le voci. Apprendevo in un attimo come può essere devastante perdere l’unica persona per cui, senza pensarci troppo, a dieci anni avresti prestato la tua di vita.
Avevo 10 anni quando Pietro fu risucchiato da un’onda dentro una grotta, afferrato, trascinato e fatto affogare, dopo averlo sbattuto sulla roccia. Tutto in meno di quattro minuti.
Mia madre il giorno del funerale non mi volle portare, perché mi voleva risparmiare questa agonia. Ho sempre saputo che ce l’aveva con me, con me e con mio padre. Eravamo la causa della morte del suo bambino e se anche ci amava, non poteva fare a meno di odiarci.
Mi lasciarono altre tre settimane a Punta Cirica. Sola con la comare di zia Mela, signora Mariella.
Il giorno del funerale di Pietro, due giorni dopo la sua morte, alle diciannove e quarantacinque scesi in spiaggia. Dissi a comare Mariella che andavo a dare da mangiare agli asini del recinto di zio Tano. Indossavo il bracciale di Pietro, macigno da portare come segno di vergogna.
Non ci pensai neanche un secondo, andai dove Pietro era stato spazzato via, volevo provare quello che aveva provato lui.
Non volevo morire, a dieci anni non sentivo quel richiamo verso la morte che mio padre, invece, ogni notte, dopo quell’estate, avrebbe confessato piangendo alla mamma. Lei, ogni notte, gli avrebbe risposto “non mi fai pena, me l’hai lasciato solo” e la luce dell’abatjour si sarebbe spenta.
Io volevo solo sentirlo. I suoi ultimi battiti, piegato a quattro zampe dentro quel cunicolo nella roccia. Quella puzza di zolfo e pesce. Mi accovacciai e la schiena mi si graffiava, ma continuai. E mentre stavo pensando di tornare indietro, perché le onde si facevano più insistenti e tutto più buio, lo vidi.
Era perfetto dentro quel buco rotondo, come fatto col compasso.
Era il nido dei granchi, dentro, se guardavi bene, ce n’erano centinaia. Riempivano le pareti, abitanti silenziosi e lucidi.
Il nido dei granchi di Punta Cirica. L’aveva trovato Pietro.
Ed ebbi la certezza in quell’istante che fu gioia l’ultima cosa che Pietro provò. Gioia.
Era la gioia di aver trovato il covo dei nemici. Di averlo trovato prima di me.
Capii che mio fratello, nell’istante in cui era morto, aveva avuto dentro di sé la consapevolezza che quella scoperta avrebbe reso la nostra estate la migliore di tutti i tempi. Indimenticabile.
Piansi solo allora, solo là dentro e solo per quei pochi minuti che mi separavano dall’aria aperta.
Infilai senza paura il braccio, fino al gomito, nel buco viscido e lasciai cadere il bracciale di conchiglie, dentro il nido dei granchi.
Quella era la sua scoperta e, come tutte le scoperte importanti, avrebbe dovuto portare la sua firma per sempre.
Quando tornai indietro, il sole era scomparso e la sera azzurra invadeva parte della costa. Sentivo comare Mariella chiamare il mio nome disperata.
Ed in quell’istante trovai tutto incredibilmente perfetto, esattamente in equilibrio.
Quell’insieme di massi e sabbia, sparsi a caso, con grotte comunicanti e fessure di vegetazione rigogliosa. Quel velo argenteo di luna riverso su ogni cosa. Quei buchi nei massi, dove si nascondevano animali meravigliosi, alghe nere che aggrovigliavano le caviglie e quelle onde silenziose e oneste.
Ed è lì che decisi. Quell’equilibrio sarebbe diventato la mia unica ragione di vita.
L’unica.
M.D.Q.